“We are playing a chess game Artemisia and I”
(A. Banti, Artemisia)

In un saggio pubblicato da Adelphi, Sotto falso nome, di Cristina Campo tra pagine erudite, di difficile lettura, su autori classici ed altri meno noti, si trovano delle grandi illuminazioni in cui vado ravvisando le parti di un mosaico interpretativo inedito. Campo sta parlando di Borges, e scrive: “Apriamo un suo libro: El Aleph, Ficciones, Historia universal de la infamia, Historia de la eternidad, ed ecco Borges disparire nelle proprie parole, rifarsi antichissimo e al di là di ogni razza: un uomo appunto “dai tratti singolarmente vaghi”, cui certo non è facile giungere, che forse è addirittura morto da tempo e solo riappare fugacemente qua e là, sotto le spoglie di un ermetico viaggiatore”. Ho sempre pensato che queste linee racchiudessero perfettamente Borges. Che non ci fosse bisogno di aggiungere altro.

Poi c’è un altro saggio, questa volta di Susan Sontag, raccolto in At the same time, che associo sempre a queste pagine di Campo. Si intitola A double destiny: il doppio destino di Anna Banti e di Artemisia Gentileschi. Fin dalle prime righe Sontag si chiede chi stia scrivendo l’incipit di Artemisia (“non piangere”): da dove le sta pronunciando? Dove si trova? Con chi sta parlando? Who is talking and where? E così sul filo di queste domande, Sontag va costruendo questo doppio racconto, in cui Artemisia, la pittrice barocca, e Anna Banti si sovrappongono per capire qualcosa in più di Artemisia, della genesi del romanzo e del suo significato ma anche di Anna Banti. Ed è da questo “io” comune, che sta tra Banti ed Artemisia, che Sontag cava fuori tutto quello che non è contenuto nel romanzo, quello che sta nella vita di Banti e ne illumina l’opera, illuminando anche quella di Artemisia. Il giorno in cui Firenze bruciò, e i ponti saltarono ed il manoscritto di Artemisia bruciò. Quel giorno in cui Banti rivolgeva a sé stessa quel “non piangere”, ma anche il rapporto (subordinato) di mentore e allieva che la univa a suo marito, il critico d’arte Roberto Longhi, a cui il romanzo era dedicato.

Sandra Petrignani prosegue quel cammino: immerge gli scrittori (scrittori e scrittrici) nelle loro parole, cose e case, e nelle loro relazioni, per farli riapparire fugacemente eppure antichissimi. Si chiede who is talking? And where? E costruisce quell’”io comune” che unisce l’opera al suo autore e al suo lettore.

Ci sono diversi modi di leggere e di avvicinarsi alla letteratura. Da ognuno di essi dipenderà la fisionomia dello scrittore o scrittrice e della sua opera, e l’interesse per i suoi romanzi. Il modo in cui si rovista tra le opere dei classici li avvicina o li allontana da noi. C’è una postura critica tradizionale, “scientifica”, di aree di competenza, dotta, imparziale, poco empatica, in cui la lettura di un’opera classica o contemporanea sembra fatta apposta per allontanarla da noi. In cui la lettura finisce per coincidere con un complesso di citazioni, una prova di erudizione, la stessa erudizione che spesso gli scrittori (sicuramente più uomini che donne) volevano sfoggiare. Spesso questa lettura è come se volesse cancellare e mettere a tacere proprio quello che anima quelle pagine, soprattutto l’insoddisfazione, la vanagloria o la banalità (che pure è legittimo trovarvi). Poi c’è un’altra lettura: che stabilisce ponti, che comincia da un punto, un particolare qualsiasi, che sta nell’opera e al tempo stesso dentro il lettore-critico, e da lì costruisce qualcosa. Una lettura che riparte dai luoghi, dagli oggetti, dalle corrispondenze, aleatorie eppure molto intuitive, più che dalle pagine. O piuttosto che fa di quelle pagine dei pezzi, dei ritagli di tempo e di spazio. Uno spazio “mimetico” in cui le pagine si arricchiscono di momenti trascurabili, capricci, e manipolazioni.

Sandra Petrignani fa dei classici degli oggetti di fascinazione, il punto di partenza di una nuova narrazione, che non si accontenta di quello che sembra, cerca di aprire la porta, forzare lo spazio in cui quegli scrittori e scrittrici hanno lavorato, per capire meglio. Leggere gli uomini, – come prima Lessico femminile, La corsara, Marguerite – si situa lì, in un punto dove si intersecano la biografia e l’opera, dove l’analisi critica è una forma di partecipazione alla vulnerabilità, mortalità, e mutabilità dell’opera e del suo autore. Come scrive Susan Sontag a proposito della fotografia, questo approccio interpretativo (per la scrittrice americana, la fotografia per quanto azzerasse l’interpretazione era sempre e comunque una interpretazione) è l’occasione di una specie di “rêverie”. “They are attempts to contact or lay claim to another reality”.

E così in questa “rêverie”, Petrignani ci racconta (in modo speculare al racconto di Lessico femminile eppure mai perfettamente speculare perché ci sono ossessioni e temi che non sono esplorati dalle donne, per disinteresse o perché la loro formazione socio-culturale glielo impedisce, e viceversa) delle case che questi uomini non abitavano fino in fondo perché in qualche modo ne rifuggivano l’anima, rinchiusi spesso in una stanza che possedevano come nessuna delle donne loro contemporanee avrebbe posseduto. Ritroviamo Salinger in quel suo rifugio spopolato di Cornish, ancora più spopolato dalle parole desolate della figlia Margarete, proprio come il suo giovane Holden, nella capanna, nei boschi, dove l’unica donna ad essere accolta sarebbe stata la ragazza sordomuta. Calvino comunque barricato nella sua fortezza, sebbene la sua casa, in cui Petrignani l’ha intervistato, fosse aperta e le sue scrivanie a vista, come se in quella ostentazione non ci fossero segreti. Manganelli, di cui l’autrice fu vicina di casa, in quella casa con le librerie in mezzo al salone, la collezione di Pinocchi, i mocassini e l’orrore per la vita familiare. O Moravia che assomigliava alla sua casa così funzionale sul lungotevere Vittoria.

Petrignani ci racconta di doppi in uno sdoppiamento (che è un topico della letteratura scritta da uomini) necessario in cui relegare quella parte di sé meno tollerabile, animale (Henry James, Conrad, Stevenson); quella parte di sé assassinata prima della nascita; doppio di un sé che si percepisce come dimezzato prima di ritrovare la pienezza (Calvino del Visconte dimezzato); quel doppio che è una metamorfosi che finisce per suicidarsi e liberare il suo originale o per essere la premonizione, una prova generale della sua morte reale (Kafka); doppio come sé sessuato (Lui di Moravia); doppio che dal romanzo entra nella vita e perseguita Guy de Maupassant, malato di sifilide; quel doppio quasi buffo del dialogo tra gran me e piccolo me che inscena Pirandello; o il doppio come salto nella metafiction, quel Moishe Pipik del romanzo di Roth (Operazione Shylock), – dove Moishe sta per Mosé, la tradizione ebraica, la legge del padre e Pipik per niente di più insignificante e lontano dalla testa di un stupido ombelico, eppure soglia invalicabile del sogno; doppio fino a perdere qualsiasi consistenza e rimbombare solo nei passi di un’ombra o di un fantasma che ti incalza.

Di padri da sconfiggere, scacco al re, e madri indimenticabili (nel bene e nel male). Così, rivediamo Dostoevskij, Giuseppe Berto, Svevo, Kafka, Roth e Modiano sotto l’ombra nera del padre; fino all’ultima mossa, forse la più perversa, quella di Čechov: lasciar vincere il padre. O Roman Gary in quel terribile non incontro con sua madre: lui che per tre anni l’aveva creduta ancora viva, e quando finalmente ottiene un permesso sul fronte e va a trovarla per scoprire che a spedirgli i messaggi non era stata sua madre ma una amica a cui la donna aveva affidato tutti i biglietti che aveva scritto per suo figlio; e lei, la madre, che per fortuna non conoscerà mai la fine di quel suo amato figlio, di quel giorno in cui indossò la vestaglia rossa perché il sangue non risaltasse troppo e decise che sarebbe stato l’ultimo.

Del sesso che spesso viene prima dell’amore, dell’amore che spesso è una cosa sbagliata o un sogno che non si ha la forza di realizzare. Sull’amore possibile o impossibile si rincorrono Kundera, Saramago, Fitzgerald, Nabokov, Cortázar, Bassani, Kawabata. Di nuovo fino a Čechov e alle due letture che da bambina Petrignani ha ricevuto del drammaturgo russo: Tre anni, racconto materno, rubato alla libreria materna, che è la storia perenne dell’amore che non si incontra, in cui si comincia ad amare solo quando l’altro oramai è indifferente; e La signora col cagnolino, racconto preferito dal padre, che è la storia di un amore clandestino, di una frettolosa stanza d’albergo, potente eppure condannato alla non nascita perché la vita di tutti i giorni è sempre più rassicurante.

Del tempo che un gesto qualsiasi, un odore familiare, il pavé ineguale, ti fa ritrovare e perdere nella malinconica consapevolezza che quel tempo (e quella parte di te) è perduto per sempre. Dall’attesa del bacio della buonanotte (Proust) fino ad essere risucchiato nell’ultima scena del Gattopardo, in cui il tappeto e quel che rimaneva del cane Bendicó venne gettato nell’immondezzaio. Attraversando i labirinti e le ficciones di Borges, dove il tempo e i suoi percorsi alternativi si sovrappone al sogno di un’opera onnipotente.

Delle prove di eroismo che costituiscono un rito di passaggio all’età adulta, dei viaggi che sono percorsi di straniamento, spesso chiusi nella ricerca del pittoresco, dell’immagine eroica che molti di questi scrittori hanno di sé. Di quella sempiterna lotta intestina (a volte anche comica) tra la necessità della solitudine e dell’isolamento, e il bisogno degli altri.

Di quel connubio tra uomini perfettamente sigillato in una scena che è come una fotografia senza sbavature: l’incontro tra Tolstoj e Čechov. Il famoso bacio raccontato da Bunin, con cui Tolstoj si congedò da Čechov (come lo scambio di cappotti tra Tolstoj e Bunin), in visita a Yasnáia Poliana, quel bacio in cui Tolstoj della barba lunga e del camicione ampio gli disse con schiettezza “Non lo sopporto proprio il vostro teatro. Shakespeare scriveva porcherie, ma voi siete addirittura peggio”. Quel bacio in cui passa con la solita battuta di spirito quel cameratismo a volte omoerotico, quel filo, quello di cui parla Woolf in A room of one’s own, quello da cui sono escluse le donne.

E finalmente di quel sé più autobiografico che spesso questi scrittori cercano di mascherare. Così Beckett (amatissimo da Petrignani) si sovrappone a Beckett, a quella sua foto con il volto scavato, al ritratto che ne ha fatto Cioran, a un’intervista in cui lo scrittore parla di sé, e ne viene fuori solo silenzio, la distanza dalle cose che lo circondano, l’inflessibilità della meta. Sartre invece è come sommerso dalle parole, parole che quasi non lasciano spazio per la vita. Come se nell’autobiografia ci sia sempre uno spazio rimosso, di cui non si può o non si deve parlare. Come Philip Roth, Elias Canetti, Martin Amis, o Pavese, in fondo reticenti, incapaci di scrivere il “perché sono me”, forse perché troppo ossessionati dall’immagine che si lascia dopo la morte al pari e in diretta proporzione all’ossessione per l’immagine di sé impostata nella vita. Come se quel sé resti rinchiuso nella stanza quella dello Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde: fuori un mondo di uomini, che è la parodia di sé stesso, in cui tutti parlano dello strano caso dello scienziato, dove le donne sono comparse o vengono calpestate, mentre lì dentro, chiuso in quella stanza, stando al racconto del domestico, quell’uomo piange, piange come una donna o un’anima perduta.

Leggere gli uomini va letto assieme a Lessico femminile: in controluce, per sentire la misura di quanto questi scrittori siano blindati; per sentire quanto la letteratura (e la vita o l’idea di vita che portavano avanti) sia seminata anche di cliché; quanto la letteratura (quella scritta da uomini) stessa si faccia una specie di campo di battaglia, una grande epopea, o i resti di un sogno andato in frantumi; dove spesso non ci sono né vincitori né vinti, dove l’hidalgo è una caricatura di se stesso,  le donne, le vere fragili eroine, pronte a curare le ferite degli unici che la Storia considera eroi; dove tutti affondano come nelle acque di Moby Dick, in cui affondare non è la fine ma solo la nostalgia dell’inizio, di quel grembo da cui tutti proveniamo.

In lessico femminile, Petrignani raccontava della figlia di Simenon, che bussa disperata a quella porta che il padre non apre. Non apre perché c’è sempre una madre che l’aprirà anche se non sarà mai abbastanza. E Petrignani ci racconta la fine tragica che fece la ragazza. In Leggere gli uomini ritorna Simenon, e lo vediamo in quella stanza, oltre quella porta chiusa: sta lì a scrivere anche otto racconti al giorno, oltre ad andare a letto almeno con tre donne al giorno. E quell’immagine di prima, della figlia, si fa ancora più implorante.

Petrignani forza spazi, mettendo questi autori in comunicazione proprio con quelle donne che non sarebbero mai state delle interlocutrici, in quella comunità di uomini, dove gli unici interlocutori degni erano solo altri intellettuali, uomini come loro. Facendo proprio quello che loro non avrebbero approvato. Magari anche solo vani “pettegolezzi” quelli di cui si preoccupava Pavese nel suo ultimo biglietto.

Ci racconta le loro piccolezze, le linee d’ombra: quelle che avrebbero compromesso la carriera letteraria, quello in cui si sarebbe bruciato tutto ciò che di alto e di buono dovevano portare a termine, come scrive Tolstoj. Forza quella separazione tra vita ed opera che probabilmente gli scrittori uomini difendevano e difendono con maggiore ossessione. E così fregandosene, ci porta nella Dublino di Beckett, tra gli scogli dove Beckett imparò a nuotare, nel cimitero dove sono sepolti i suoi, la marca del whisky che beveva, per farci sentire ancora di più il frastuono delle onde, quegli odori che altri avrebbero trovato spiacevoli. Fino alle parole della nipote che restituiscono l’intensità degli ultimi momenti, quelli della malattia del fratello (quasi per risarcire la forza che Beckett non aveva avuto ad accompagnare la madre fino in fondo) per sentire e capire di più L’ultimo nastro di Krapp e quell’uomo che voleva starsene tranquillo.

E in controluce, il doppio maschile sempre così ingombrante e terribile sembra non trovare un analogo nel lessico femminile. Ed infatti, se un doppio femminile, esiste come topico letterario, lo penso piuttosto nelle parole di Woolf: uno specchio: “when she looked in the glass and saw her hair grey, her cheek sunk, at fifty, she thought, possibly, she might have managed things better”. Uno specchio che rimanda un’immagine ugualmente umana di te. O, passando alle parole di Elena Ferrante (I margini e il dettato): un doppio che è piuttosto un’amica (più che antagonista), un perno narrativo, “un tutto scrittura”, attraverso cui generare sé stessa.

In lessico femminile, ci sono tante madri e tante figlie scrittrici, a loro volta, madri. Anche tra loro si giocava qualcosa, ma qualcosa di diverso. Perché in qualche modo, la storia del proprio legame con la madre si riflette sulla maternità (o la sua mancanza) della figlia. Perché in quella continuità, anche se la figlia è stata schiacciata dalla madre, anche se c’è ossessione, risentimento, punizione, il confronto continua. Non si arresta, non c’è un morto, un perdente (io o lui). Le figlie perdonano le madri anche quando non le hanno perdonate: perché c’è un’eredità che si passa, un flusso in cui si resta dentro. Il rapporto con il padre invece è dominato dalle metafore di guerra e alla fine dello scontro è come se gli scrittori di cui parla Petrignani siano capaci solo di dire (sempre come uomini tutti d’un pezzo, con tutta l’autocritica di cui sono meravigliosamente capaci) “è tardi per fare i conti”. Come se ci sia sempre una ritirata, un pezzetto di qualcosa che è meglio lasciare dov’è.

Petrignani cerca questi autori nell’amore, nel desiderio onnivoro e libero, nel desiderio per le ninfette e le lolite, nel desiderio che sta ancora lì nella vecchiaia, sul letto di morte del gattopardo, dove la morte assume fattezze di donna, e dove il petto continua ad essere il petto della madre. Così come in Lessico femminile aveva cercato le scrittrici in quel fiume d’amore, con quell’eccessivo perdutamente innamorata, i sensi di colpa, molto masochismo, gli amori non corrisposti, il totalitarismo amoroso, con amanti che sono idoli, spesso perversi, e amori divorati dalla competizione (famoso quello di Sylvia Plath). Ed è come se nelle opere scritte dagli autori che Petrignani ripercorre, ci sia sempre qualcosa di più grande, di più importante dell’amore: il quadro, l’affresco della società e i propositi altisonanti e grandiloquenti. Come se ci sia sempre, di nuovo, un tassello mancante. Mentre nella vita e nelle opere delle scrittrici raccontante in Lessico femminile, nonostante tutti gli stereotipi sull’amore (vissuto e narrato), è come se quella pagina in bianco non resti proprio in bianco, come se quella pagina si faccia sempre più privata. Come se le donne continuassero il racconto: a inventare l’amore sulla pagina, perché non bisogna accettare le briciole.

Ma soprattutto Petrignani ritorna alle sue letture più care, quelle che l’hanno formata, quelle che sono legate come per ognuno di noi anche al padre e alla madre, quelle di cui ti sei anche follemente “innamorata” (per lei La lettera scarlatta di Hawthorne, perché ha sentito il suo autore dalla sua parte, o Ada di Nabokov). E come su un contraltare ritroviamo personaggi perdenti e controeroi (Timofej Pnin di Nabokov o Stoner di John Williams), che, sul letto di morte, anche quando stanno precipitando nelle morte, allungano la mano sul comodino, in cerca del libro, cercando di sopravvivere nella loro opera, oppure, come Bartleby (altro personaggio amato), sanno che quando il messaggio arriverà non troverà mai il suo destinatario.

Petrigani ricuce il percorso di lettrice che va fino alle radici e a quel sentimento ambiguo di fastidio o frustrazione provocato da quei libri scritti da uomini, in cui non riusciva a riconoscersi del tutto. Essendo di quella letteratura la parte “rimossa”. E se ne accorge da subito, da quel Peter Pan in cui solo lui, il ragazzo che non vuole crescere, conosce il segreto del volo, in cui Wendy sarà sostituita in quel volo da sua figlia e poi da sua nipote e così all’infinito; o Alice che dopo aver sognato si sveglia dove era sempre stata e il tè è già pronto. E laggiù, Petrigani ritrova quella bambina (e noi tutte bambine di quella generazione e non solo) a doverci accontentare di volare come Peter o a desiderare di crescere in fretta come Kim. Laggiù, dove fantasia e realtà si contaminano in una Francia tenebrosa, quella di Dumas, dove le donne si devono pentire, si pentono ma vengono ammazzate comunque, come Milady.

E mentre continua a raccontare di Arbasino, di Chatwin, delle due Indie, quella di Pasolini e quella di Moravia, Petrignani racconta anche i suoi viaggi in India e così, scivolando nel suo mondo, aggiunge “l’altra metà del cielo”, “quella regione ignota e fascinosa”. Fermando gli occhi sulle trecce delle donne tibetane che da nere diventano bianche, ma sono ugualmente meravigliose, sul Mekong, che ha risalito per arrivare lì dove era vissuta Marguerite Duras, per incontrarsi con lei. Non per perdere, per documentare, ma per ritrovare, in un flusso che risale e riscende.

Silvia Acierno