Il difficile rapporto tra mondo scritto e mondo non scritto – ossia tra quel mondo speciale «fatto di righe orizzontali, dove le parole si susseguono una per volta» e «il mondo, fatto di tre dimensioni, cinque sensi, popolato da miliardi di nostri simili» – è uno degli snodi di riflessione principali nell’opera di Italo Calvino (1923-1985), un autore poliedrico che ha lasciato dietro di sé una gran quantità di racconti e storie, persino fiabe, ma anche moltissime pagine di pura riflessione teorica, spesso dedicate proprio alle possibilità e ai limiti della stessa letteratura a cui aveva scelto di dedicare la vita.

L’argomento del rapporto tra mondo scritto e mondo non scritto viene affrontato in modo sistematico nel testo The Written and the Unwritten World, scritto in occasione di una conferenza tenuta negli Stati Uniti nel 1983: Calvino inizia il proprio discorso presentandosi come un lettore, un amante del mondo delle parole scritte, all’interno del quale ogni esperienza è possibile ma nulla è fuori controllo; il mondo non scritto, al contrario, è imprevedibile e potenzialmente infinito («non finisce mai di sorprendermi, di spaventarmi, di disorientarmi»). Nonostante quest’apparente dicotomia, il confine tra i due mondi è difficile da individuare: non solo il mondo scritto non può fare a meno di attingere al pozzo del mondo non scritto per poter esistere, ma anche quest’ultimo è diventato ormai impossibile da raggiungere senza passare attraverso il linguaggio. Agli occhi di Calvino, infatti, il paesaggio quotidiano è alla pari di un gigantesco murales, in cui ogni cosa porta con sé una pesante crosta di discorsi: guardarsi intorno significa inevitabilmente frantumare lo scenario in elementi minimi, da ricomporre pazientemente in segmenti significativi che comunichino tra loro, comprensibili solo all’interno di una visione enciclopedica del mondo. Questa abitudine di leggere il mondo attraverso lo sguardo ha ormai trasformato definitivamente l’Homo sapiens, rendendolo Homo legens: privo delle capacità sensoriali di un tempo, l’uomo contemporaneo non può evitare di ricorrere all’interpretazione per la conoscenza di tutto ciò che lo circonda, perché «non interpretare è impossibilecome è impossibile trattenersi dal pensare».

Impossibile anche non individuare un filo rosso tra queste riflessioni e il personaggio del signor Palomar, protagonista dell’omonimo romanzo pubblicato da Calvino per Einaudi proprio 1983, al quale va attribuita, infatti, la precedente citazione. Palomar è solitamente considerato l’alter-ego letterario più riuscito del suo autore, ed è un personaggio a cui è impossibile non affezionarsi, nonostante sia assolutamente diafano e inconsistente: caratterizzato appena da un costante nervosismo, esiste solamente in virtù della sua funzione oculare; il suo stesso nome è preso in prestito da un monte della Contea di San Diego, negli Stati Uniti (e infatti la sua pronuncia corretta è Palomàr) dove si trovava allora il più grande telescopio del mondo. Una seconda interpretazione del nome Palomar, altrettanto valida ed esposta da Calvino in occasione della stessa intervista, sarebbe il richiamo (fonico) al termine “palombaro”: allo sguardo puntato verso l’alto del telescopio di Mount Palomàr si affianca così un movimento di senso opposto, l’idea di un’immersione nella profondità. In entrambi i casi, il nome calza perfettamente il personaggio, perché Palomar è a tutti gli effetti un esploratore degli abissi e una lente d’ingrandimento usata da Calvino sul mondo, uno scrutatore (come già prima di lui Amerigo Ormea, e in modo diverso Marcovaldo); le pagine dedicate a lui rappresentano il tentativo più esplicito fatto dall’autore di mettere in comunicazione il mondo scritto e il mondo non scritto, attraverso la difficile pratica della descrizione.

Nato diversi anni prima tra le pagine del Corriere Della Sera, Palomar viene eletto a protagonista di ventisette brevi racconti, in ognuno dei quali si ritrova perso tra le sue riflessioni o si avventura nel mondo non scritto a osservare qualcosa di apparentemente semplice (i fili d’erba del prato, i formaggi esposti in una vetrina, le giraffe allo zoo…) mentre la penna di Calvino segue la sua mente e il suo sguardo, cercando di trasportare con fedeltà le visioni del suo personaggio nel mondo scritto. Il risultato di questo esperimento è un libro unico nel suo genere, una serie di descrizioni dettagliate in cui la scrittura di Calvino dimostra tutta quell’esattezza che gli era tanto cara: la situazione di partenza che apre ogni racconto (Palomar strappa le erbacce, Palomar entra in un negozio, Palomar passeggia allo zoo…) sembra trovare un naturale esaurimento dopo pochissimi accenni, perché la vera narrazione sta nella descrizione e potremmo dire anche nella stessa frustrazione del protagonista, dal momento che ogni tentativo di descrizione si rivela una sfida insormontabile per il suo sguardo. Prendiamo per esempio il celebre brano che apre la raccolta, Lettura di un’onda: il signor Palomar arriva in spiaggia, e vuole guardare un’onda. Ma come si può isolare un’onda nel continuo andirivieni del mare sulla costa? E come si può pensare di osservare un’onda se il campo di osservazione che l’occhio umano abbraccia orizzontalmente è solo una piccola porzione di mare? Infine, come definire davvero cos’è un’onda, quando ogni agitazione del mare sembra seguire un modello di movimento diverso dall’altra? Innervosito da questi pensieri, in questo brano così come in quasi tutti gli altri, il signor Palomar finisce col perdere la pazienza e allontanarsi sconfitto dal suo oggetto di osservazione. Coerentemente (spoiler alert!), il libro si chiude con la sua stessa morte, unica via di uscita della mirabile spirale di pensieri in cui il protagonista incastra sé stesso nell’ultimo brano (Come imparare a essere morto). La morte di Palomar rappresenta probabilmente l’unica conclusione possibile per questo libro. Ma davvero è impossibile risanare il rapporto tra linguaggio e realtà, utilizzare le parole per stabilire un contatto autentico tra la pagina scritta e il mondo? Anche se ognuno dei brani di Palomar si conclude con una nervosa resa di questo amabile personaggio-protagonista-narratore, il tentativo di Calvino non sembra del tutto fallito: la sua scrittura è così precisa ed equilibrata da riuscire a superare l’opacità dei paesaggi quotidiani e restituire loro un’anima complessa, ma autentica. L’inquietudine costante di Palomar, però, non è inutile: serve a ricordare al lettore la necessità di esercitare pazientemente il proprio sguardo, e attraverso esso, soprattutto, esercitare il proprio pensiero critico, nella consapevolezza che ogni risultato raggiunto non può che essere effimero e momento dopo momento bisogna essere pronti ad ammettere di aver perso il filo e ricominciare tutto da capo, poiché questo è il modo con cui noi homini legens siamo destinati ad abitare il mondo.

Valeria Garozzo