Numero 14 | Novembre 1998

Cristina Campo come un finissimo tesoro che viene portato alla luce a poco a poco. Saggista, traduttrice, poetessa, voce a sé stante e fuori da ogni moda, caduta per sbaglio e un po’ controvoglia in un distratto Novecento? In tutte queste maschere, e insieme in nessuna forse a Cristina riuscì di riconoscersi in vita. La sua estrema raffinatezza espressiva, che a volte accompagna dritta nel cuore sanguinante della bellezza, altre l’addita ma ne distanzia il goffo e troppo laico lettore, non allontani dalla percezione della forza trasgressiva della sua opera in quanto a scelte estetiche, giudizi di valore, stile soprattutto.

Cristina coltivò sterminate letture ma per via di assoluta concentrazione da ogni campo raccolse una perla soltanto. I suoi bottini stanno tutti racchiusi in potenza dentro fedelissimi titoli: Gli imperdonabili (dove sono contenuti i saggi – se così si possono chiamare, o meglio talismani di impraticabile ma fascinosa saggezza), La tigre assenza (che comprende le poesie di Cristina più le sue traduzioni poetiche), e quest’ultimo volume curato da Monica Farnetti, Sotto falso nome, che riporta alla luce scritti vari che la nostra disseminò sulle riviste e i volumi più diversi, quali commenti, introduzioni, recensioni e quant’altro; spesso e volentieri firmandoli né col suo nome anagrafico (Vittoria Guerrini) né con lo pseudonimo favorito – o folgorante poesia – di Cristina Campo, bensì con altri nomi, tutti maschili, coniati o presi in prestito da personaggi storici ignoti ai più. Tale complesso sistema di identità fittizie con tutta probabilità fu dettato da uno spirito di necessità giocosa. Poter guardare in faccia la bellezza senza voltarsi indietro, riconoscerne la perdita sulla terra e coltivarla nella mente – ossia diventare imperdonabile – passa attraverso un perdonabilissimo stratagemma: il falso nome viene calato come un fine velo sugli occhi atterriti di fronte al meraviglioso terrore dell’anima chiamata a pasteggiare dell’amore. «Tu siederai, disse Amore, per gustare della mia carne. / Così io sedetti e mangiai», dice il poeta metafisico Herbert tradotto da Cristina.

Se è vero che gli scritti della Campo si sottraggono a qualsiasi definizione di genere, è suggestivo affermare che creano da sé la propria formula espressiva. Sia che si parli di fiabe, tappeti, liturgia, padri del deserto, sensi soprannaturali o dell’amore terreno, ogni volta davanti ai nostri occhi e orecchie – come per Psiche nella dimora di Amore – è una cerimonia nuziale che viene apparecchiata da invisibili e lievi mani. Nulla può trattenere gli opposti dallo sposarsi eternamente, e l’amore consumato non è che l’avvio di una mirabile, quanto dolorosa, metamorfosi. A chi si è lasciato mangiare sarà dato cibarsi del dio. E solo a chi accetta di non sapere sarà rivelato: «Entrai dove non sapevo / e vi restai non sapendo, / ogni scienza trascendendo», come scrisse San Juan de la Cruz, sempre tradotto da Cristina. Non più vista ma visione, senso scalzato dalla percezione, sguardo allargato, distolto dal suo punto di ancoraggio. La «notte oscura dell’anima» è questa anticamera, che porta a dimenticare la nostalgia del ritorno grazie a una promessa di grazia infinitamente superiore: la possibilità di «disimparare il cercare e imparare il trovare», come recita il Nietzsche citato da Cristina nel saggio In media coeli.

Nel 1997, a vent’anni dalla morte di Cristina (era nata a Bologna nel 1923) si sono tenute a Firenze due giornate di studio sulla sua vita e sulla sua opera, così liturgicamente legate, proprio come indissolubili sono forma e significato nella sua scrittura. Motivo per cui i relatori si sono sì suddivisi i compiti ma in nessun caso hanno potuto separare il liquore dal calice che lo contiene, o viceversa, visto che per Cristina «la figura preesiste all’idea da colarvi dentro». Gli atti rappresentano un primo importantissimo passo della critica nei confronti di un’opera non solo inclassificabile ma per sua natura sfuggente, tesa com’è, soprattutto nella fase più matura, a richiudersi a cerchio intorno al nocciolo di perfezione che persegue. Quasi non abbisognasse lettore o interpretazione critica. Le due giornate di studio sono riuscite nel tentativo di passare da un atteggiamento di riverenza a una più umana devozione – come dice la Farnetti nell’introduzione – dal mistero della persona di Cristina, così incline a lasciare terra bruciata dietro i suoi testi, al dono intrinseco alla sua opera, che innanzitutto è gesto di assoluto rispetto nei confronti del mistero. Motivo per cui è più facile ricostruire la mappa delle letture della Campo, che trovare la chiave o le molte chiavi per entrare nei suoi scritti. Leggere e scrivere furono per lei un identico esercizio di amorosa assistenza alla moltiplicazione dei simboli che solo in un secondo tempo, dopo infinita e ardente attesa, si svelano in rivelazioni cifrate e si riorganizzano in figure, ma in nessun caso possono essere spiegati. Piuttosto richiedono attenzione pura – la facoltà prediletta da Cristina, che la riteneva consustanziale alla poesia.

Eppure, proprio lei che in una lettera a Piero Polito affermava «Sempre meno mi interessano i problemi del mondo (ormai indifferenziati), sempre più quelli della perfezione», aveva fatto propria, e addirittura integrata, una concisa lezione di umanità di Simone Weil: «Et chaque ètre humain (e si potrebbe aggiungere: et chaque chose) crie en silence pour ètre lu autrement». È interessante allora, come dimostrano alcune relazioni perfettamente riuscite in questo intento, cominciare a leggere Cristina non sul versante della perfezione – dove la sua opera portò fin troppa luce – ma da quell’altro, quello del caos, del senso esploso e non più distillato dal linguaggio. Remo Fasani, nel suo saggio Le traduzioni da Mörike sottolinea per esempio come l’allora giovanissima traduttrice (la Campo all’epoca aveva solo venticinque anni) rivelasse nella propria versione italiana del cantore svevo una vera e propria ripugnanza a dire cose semplici e universali, e tendesse sempre a elevare l’originale. Stessa cosa le dovette accadere, quasi consapevolmente, quando scriveva poesia: «Io faccio dell’oreficeria, mentre si deve lavorare la pietra». L’ultima Cristina, quella della lunga composizione Diario bizantino, sorta di rito sacrificale, supplica di essere letta come definitiva cacciata dall’armonia («o tacere dei canti, polverizzato il cuore!»). Il linguaggio del dio, qui centrato, annuncia non perfezione bensì separazione. Essere poesia è amare la lama che un giorno ci incise, non rimarginare – bellissima – la ferita.

Monica Pavani

 

«È sempre un colpo di follia che apre la strada al labirinto delle parvenze ingannevoli, dove diamanti sembrano gusci di chiocciola, i sassolini della strada perle e l’inferno spalancato sotto ogni passo le graziose praterie dell’Eliso.»

 

Bibliografia (aggiornata)

Gli imperdonabili, Adelphi 1987, € 20,00
La tigre assenza (a cura di Margherita Pieracci Haiwell), Adelphi 1991, € 20,00
Sotto falso nome (a cura di Monica Farnetti), Adelphi 1998, € 20,00
Lettere a Mita, Adelphi 1999, € 25,00
Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953-1967), Adelphi 2007, € 19,00
Carteggio. Cristina Campo, Alessandro Spina, Morcelliana 2007, € 14,00
Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-1975, Archinto 2009, € 14,50
Un ramo già fiorito. Lettere a Remo Fasani, Marsilio 2010, € 12,50
Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino, Adelphi 2012, € 24,00