«Ogni artista vero, ogni poeta, non può non fare sempre i conti con le proprie origini, con le proprie budella […]» rispondeva Bassani a chi lo accusava di essere troppo legato alle proprie radici. Comunemente noto come il grande romanziere di Ferrara, Giorgio Bassani ha infatti dedicato gran parte della sua produzione letteraria al mondo ebraico-ferrarese degli anni che vanno dall’anteguerra al secondo dopoguerra, motivo per cui spesso – e in maniera sbrigativa – viene etichettato come provinciale o locale. In realtà, gli interessi e gli ambiti culturali per i quali mise a servizio il suo talento furono vari ed eterogenei: basti pensare all’incarico di redattore presso la rivista Botteghe Oscure – periodico di letteratura internazionale –, o agli articoli scritti per Officina, all’incarico dirigenziale presso Feltrinelli che permise la pubblicazione de Il Gattopardo, alle sceneggiature cinematografiche che scrisse insieme a grandi cineasti dell’epoca come Michelangelo Antonioni e Mario Soldati, o ancora alla breve esperienza dirigenziale presso la Rai.
Inoltre, all’interno della raccolta di romanzi e racconti nota come Il romanzo di Ferrara (1974-1980) – definita da Bassani stesso «una sorta di poema romanzesco» – è possibile individuare un romanzo che scardina alcune certezze e alcuni luoghi comuni su questo autore e sulla sua produzione narrativa: L’airone. Con Il romanzo di Ferrara Bassani volle creare un corpus di testi unitario, tenuto insieme dal fil rouge della storia ebraico-ferrarese, e pertanto costituito da tutte le opere di narrativa da lui composte e pubblicate sino al 1972: Cinque storie ferraresi (Premio Strega 1956), una raccolta di racconti brevi di forte intensità che ha inaugurato il ciclo narrativo di Ferrara; Il giardino dei Finzi-Contini, il suo più grande successo editoriale, romanzo di formazione che racconta la vita di una ricca famiglia borghese di Ferrara durante gli anni del fascismo e delle leggi razziali; il romanzo breve Gli occhiali d’oro che affronta il tema dell’emarginazione sociale degli omosessuali; il romanzo breve Dietro la porta; la raccolta di racconti intitolata L’odore del fieno; e infine l’ultimo romanzo da lui pubblicato, intitolato L’airone (1968), con cui riuscì a conquistare la critica e a vincere il Premio Campiello nel 1969.
L’airone è un romanzo anomalo, costruito prevalentemente attorno all’itinerarium mentis di un personaggio, un racconto che lascia sullo sfondo la contingenza della situazione storico-politica e che permette all’opera di prendere le distanze dalla narrativa memorialistica che ha reso celebre l’autore. Emerge infatti da queste pagine la maturazione di un nuovo rapporto con la realtà, in cui la critica è solita riconoscere l’influenza che il Nouveau Roman francese ebbe su Bassani, sia sul piano stilistico sia su quello contenutistico. L’eredità della letteratura francese ne L’airone si traduce da un lato in quella peculiare tecnica dello sguardo oggettuale, disumanizzato e disumanizzante, che porta a una descrizione ossessiva di paesaggi e azioni (si pensi a Le Voyeur di Alain Robbe-Grillet), e che ha l’obiettivo di distogliere l’attenzione del lettore dal vuoto della coscienza inesplorabile dei personaggi; dall’altro lato nella scelta del tema di una morte non certa come fulcro dell’intera vicenda. Basti pensare che fu proprio Bassani a definire L’airone come la «descrizione di un viaggio verso la morte», sebbene i viaggi raccontati nel romanzo siano due: quello fisico-spaziale intrapreso dal protagonista per una battuta di caccia da Ferrara a Volano e ritorno, e quello mentale che lo conduce effettivamente alla scelta del suicidio.
Un altro scarto rispetto alle opere precedenti è il passaggio di Ferrara da centro a sfondo della vicenda, una presenza percepibile solo in lontananza; passano invece in primo piano le lunghe e dettagliate descrizioni della pianura padana, luoghi che suggeriscono una condizione di solitudine irrimediabile, come le valli che il protagonista desidera abitare quando viene invaso da un improvviso bisogno di inquietudine e solitudine: «improvvisamente, con estrema violenza, si sentì riafferrare dal desiderio di ritrovarsi, pioggia o non pioggia, a qualsiasi costo, in mezzo alle valli: solo».
Il protagonista di questo romanzo, Edgardo Limentani, è un ricco possidente ebreo di Ferrara che la mattina di Santo Stefano del 1947 decide di prendere parte a una battuta di caccia nella vicina Volano, decisione dettata da un forte desiderio di allontanarsi da casa. Qui tutto sembra infastidirlo, ogni oggetto diventa estraneo e assurdo ai suoi occhi, persino la sua stessa immagine riflessa nello specchio provoca in lui una sensazione di spaesamento: «intanto si osservava nello specchio. Quel viso era il suo; e tuttavia lui stava lì, a fissarlo, come se fosse di un altro, come se neanche il proprio viso gli appartenesse. […] Come era meschino e antipatico anche il suo viso, come era assurdo!». Questo sentimento di assurdità del vivere, questo senso di disagio passa anche attraverso l’insistito uso di un’aggettivazione in negativo: “stanza così estranea, così squallida”; “mento deturpato”; “guance scontente, sporche”; “pessimo umore”; “mattina contraria”; “buio scalone”; “freddo umido e insidioso”; “soffitto tenebroso”; “melanconica, fidata sagoma”; “pareti disadorne”; “vicoletto maleodorante”; “rottame arrugginito e inservibile”.
L’effetto che ne deriva è quello di una realtà allucinata, filtrata dallo sguardo di un uomo irrimediabilmente imprigionato in un senso di accidia, che si rivelerà mortale. Questa stessa accidia lo porta a ritardare continuamente il suo arrivo a Volano, ma soprattutto gli impedisce di sparare anche quando, una volta giunto sul luogo della battuta di caccia, stormi di uccelli gli capitano a tiro: «per più di un’ora rimase così, seduto col fucile in mano a guardare gli uccelli arrivargli sopra la testa. Non sparava. Non tentò di farlo nemmeno una volta».
Il momento della caccia apre un piccolo varco nel mondo interiore del protagonista: immedesimandosi in un airone ferito a morte da un colpo di fucile, Limentani sembra preannunciare una fine simile per sé stesso. Seduto dentro una botte nei pressi della laguna, invece di impugnare il fucile, Edgardo rimane intento a osservare e a studiare le traiettorie degli uccelli che gli passano sopra la testa, finché vede avanzare nella sua direzione un airone; rimane rapito dalla sua andatura lenta e da quel suo scarso istinto di sopravvivenza, che sembra accomunarli e che porta l’animale ad avvicinarsi pericolosamente ai cacciatori, diventandone facile preda. Nel momento in cui viene colpito, l’airone cade a un passo dalla botte in cui è nascosto Limentani e incrocia il suo sguardo, dando inizio a un processo di identificazione che è centrale nella seconda parte del romanzo. Limentani, infatti, si immedesima a tal punto nell’airone da non riuscire a sparare nemmeno un colpo, l’unico colpo della giornata con cui avrebbe potuto porre fine alle sofferenze dell’animale: «si illudeva a un punto tale, era chiaro, povero stupido, che se a pensare di sparargli non gli fosse sembrato, a lui, di star sparando in un certo senso a sé stesso, gli avrebbe tirato immediatamente». Come si può notare, il protagonista osservando l’airone riesce a guardare se stesso da fuori, a proiettare sugli animali il proprio mondo interiore, e a preannunciare velatamente la sua fine.
Il processo di identificazione è reso narrativamente attraverso un abile utilizzo del discorso indiretto libero, che confonde in un’unica voce il punto di vista di Edgardo e quello dell’airone: «e benché ferito, benché indebolito dal sangue perduto, e di conseguenza desideroso più che mai di godersi lì, al riparo, del vento, l’ultimo tepore del sole, a un dato momento aveva pensato che gli convenisse comunque e subito “cambiare zona”», oppure: «[…] cercava tuttavia di raccapezzarsi, di riconoscere almeno gli oggetti che lo circondavano. Lontano pochi passi, mezzo all’asciutto e mezzo nell’acqua, aveva notato il vulicipio. Che cos’era? Una barca, oppure il corpo di un grosso animale addormentato? In ogni caso alla larga».
Né la morte dell’airone né quella del protagonista vengono raccontate, ma solo accennate, come se il vero senso del romanzo si cogliesse in questo continuo stato di tensione che conduce alla scelta del suicidio, ma non alla sua rappresentazione. Da notare infine come nelle ultime pagine ricorrano parole nuove come “beato”, “felicità”, “pace”, “allegria”, a significare la serenità improvvisa che invade drammaticamente l’animo del protagonista non appena per lui si prospetta una fine vicina.
Bassani riesce con questo romanzo a intercettare le inquietudini dell’uomo contemporaneo portandole alle estreme conseguenze, e a declinare a suo modo alcune innovazioni stilistiche e contenutistiche della letteratura europea del secondo Novecento.
Cecilia Urietti
Leggi la presentazione di ’900 italiano a cura di Enrico Bormida e Andrea Borio
E tu cosa ne pensi?