Giuseppina Torregrossa è una delle autrici che ha partecipato negli scorsi anni alla Borsa del Libro del Women’s Fiction Festival di Matera, un luogo dove aspiranti autrici possono incontrare editor e confrontarsi sul proprio lavoro di scrittura.

Giuseppina Torregrossa, medico ginecologo, esordisce come scrittrice a 51 anni. Parafrasando Yehoshua potremmo parlare di esordio tardivo. Com’è stato portare avanti questa doppia anima di dottoressa e letterata e quando ha sentito di potersi concedere di provarci fino in fondo?

Ho tentato il tutto per tutto quando ho pubblicato. Io ho fatto la ginecologa per molti anni, poi ad un certo punto della mia vita ho avuto dei problemi di salute, per cui ho dovuto rallentare i ritmi lavorativi. La scrittura è stato uno strumento di grande compagnia per me in quel momento. Le mie amiche hanno insistito perché uscissi allo scoperto diciamo. Da ex timida non ero così sicura di volermi manifestare all’esterno; quando si scrive si parla di sé, anche attraverso personaggi di invenzione perché è sempre dentro al proprio animo che si pesca, ed io ero un po’ restia a mostrarmi. Quindi arriva L’assaggiatrice, il mio primo romanzo; per loro valeva la pena di mandarlo in giro e l’ho fatto. Ho trovato tre editori interessati a pubblicarmi. Ero sorpresa di questo riscontro. Poi ho deciso di pubblicare con Rubbettino perché volevo un editore del sud. Ho scelto di non inviarlo a case editrici grandi come Mondadori, Rizzoli, Einaudi perché ho pensato che non mi avrebbero mai presa in considerazione. Si è trattato forse un basso livello di stima. Poi le cose sono andate come dovevano andare quando si mette di mezzo il destino, o il caso. Il libro è uscito, io sono andata a presentarlo al Women’s Fiction Festival dove ho fatto un incontro decisivo per la mia carriera. L’aneddoto è anche abbastanza comico se vogliamo. Stavo girando di pomeriggio nella libreria di Matera e ho incontrato una giovane donna con la quale ho iniziato a chiacchierare. Lei mi fa: sa, ho un aereo tra un paio d’ore, lei che cosa mi consiglia di leggere? Una cosa veloce e divertente. Io le ho detto: compri L’assaggiatrice. È molto divertente, vedrà che sarà una lettura piacevole. Sulla quarta di copertina del libro non c’era la mia foto quindi la ragazza non poteva immaginare fossi io l’autrice del libro. Ho visto di sottecchi che lo ha comprato. Dopo una quindicina di giorni ho ricevuto una mail dalla Mondadori, ho pensato subito fosse uno scherzo delle mie amiche, ho richiamato al numero di telefono in calce alla mail pronta a dire smettete di prendermi in giro, invece era lei, Giulia Ichino, la ragazza alla quale avevo consigliato il libro, editor in Mondadori. Così dopo aver parlato le ho inviato le prime trenta cartelle de Il conto delle minne, al quale stavo lavorando. Da lì in poi è stato tutto pazzesco.

Nel 2009 con Mondadori esce quindi Il conto delle minne libro che vince la borsa del libro sempre al WFF di Matera. Quanto ha contato per lei la partecipazione a questo tipo di manifestazione? Sente di essere stata “scoperta” a Matera?

Matera è stata l’occasione della mia vita. Il conto delle minne è stato un’ubriacatura. È stato tradotto in dieci lingue, per ben 22 settimane di classifica di filato, è stata una cosa unica, inimmaginabile. Ancora oggi io ricevo diritti tutti gli anni per quel romanzo. Mi chiedo spesso io per prima – che cosa è successo con questo libro? Quali corde ho toccato?

E da quel momento in poi è stata catapultata in un universo molto diverso rispetto a quello al quale era abituata.

Certo, io ero abituata alle pubblicazioni scientifiche, con le loro regole, ai convegni scientifici con le loro procedure. Trovarsi da un momento all’altro in un clima così libero (a Roma si direbbe scialla) è stato davvero una cosa incredibile. Per me è stato capire che esisteva un’altra vita. La mia seconda vita.

Lei è stata vicepresidente del Comitato romano dell’Associazione per la lotta ai tumori al seno e responsabile del programma di prevenzione dei tumori dell’apparato riproduttivo nelle carceri femminili di Rebibbia e di Termini Imerese. Nei suoi romanzi i personaggi femminili hanno un ruolo centrale. Anche nell’ultimo Al contrario, edito da Feltrinelli, che ha per protagonista Giustino medico condotto, in realtà le vere protagoniste sono le donne. Madri e mogli che vivono nella trincea della fame prima della seconda guerra mondiale in una Sicilia sperduta e che, quando mariti e padri partono per il fronte, attingono forza dalla loro miseria e salvano la comunità dall’annichilimento. Quanto ha influito la sua conoscenza anche corporale dell’universo femminile per renderlo sulle pagine così autentico?

Questo ultimo romanzo salda le mie due anime. Nasce per caso, come tutte le idee forse, e finisce per mettere insieme i due aspetti della mia vita, quella del medico e quello della scrittrice. È vero che racconta le donne, ma il vero protagonista è il corpo. Il corpo è la parola unica, il tema centrale. Il corpo con le sue fragilità e i suoi punti di forza e io lo dovevo raccontare; un corpo che si ammala, dà la vita, muore. L’attenzione al corpo mi permette di mettere insieme le due cose: in fondo noi esistiamo in quanto corpo. Certo, per chi crede esistiamo anche in quanto anima. Ma esistiamo soprattutto in quanto esseri dotati di fisicità. Se la serotonina è bassa siamo depressi, non è perché la nostra anima è malata. È il nostro cervello che è depresso.

Infatti anche il titolo Al contrario fa riferimento a una patologia del corpo del protagonista quando scopre di avere gli organi al contrario.

Sì, diciamo che il titolo nasce da questa anomalia. Normalmente gli esseri umani nascono con il cuore a sinistra. Talvolta durante l’embriogenesi il cuore si posiziona a destra, si chiama situs inversus. Il protagonista dice in un modo ed agisce in un altro e trova la giustificazione dei suoi comportamenti nascondendosi dietro la sua patologia. Anche quando il suo comportamento è palesemente figlio di una cultura patriarcale e maschilista lui si appella alla scienza dicendo che in realtà è il suo cuore ad essere montato male.

Parliamo della lingua. L’uso che ne fa è uno degli elementi che caratterizza i suoi romanzi. I dialoghi in un dialetto antico, la voce narrante è un italiano regionale farcito di espressioni dialettali, dosate sapientemente. Lei ha vissuto tra Palermo, sua città di origine, e Roma, sua città di adozione. Ringrazia i suoi nonni che sono il cuore palpitante di questa storia. Come fa a recuperare la musicalità del siciliano e renderlo così autentico nei suoi romanzi?

Io sono nata a Palermo e ci ho vissuto fino all’età di tredici anni quando i miei genitori decisero di trasferirsi a Roma. Ma sono rimasta legata sempre tantissimo alla mia terra di origine. Ci passavo tutte le estati. La mia lingua del cuore è il siciliano, Palermo è la mia mamma. Il dialetto è sempre stato la lingua usata dal popolo, dalle persone non istruite. Nelle famiglie di buon livello in Sicilia il dialetto non si parlava. Negli anni ’70 ci fu una vera e propria guerra contro il dialetto. Alle persone di un ambiente borghese era vietato. A me ad esempio fu categoricamente vietato da mio padre. Io ho amiche a Palermo che non conoscono il siciliano per questo motivo. Io questa lingua l’ho persa due volte. La prima quando è stato quando mio padre mi proibì di parlarlo ed è stata una cosa di una violenza inaudita perché, come dice De Mauro, ma lo dice anche Pirandello, il dialetto è la lingua del cuore, del sentimento che proviamo verso le cose. Tutto quello che appartiene al mondo degli affetti è spesso il dialetto che lo racconta, pensi alle cantilene, alle ninne nanne, agli indovinelli, alle filastrocche. La seconda volta che l’ho perso è stato quando sono venuta a vivere a Roma da adolescente. Io parlavo l’italiano ma con una cadenza siciliana, le vocali larghe e aperte, qui sono divenuta terrona nel giro di un mese. E a tredici anni, in piena adolescenza essere definita terrona è stato molto doloroso. Così ho imparato a parlare senza questa intonazione. Per recuperare il siciliano (che ho sempre parlato di nascosto), è stato come recuperare un intero mondo di sentimenti che ha sempre fatto parte della mia vita. Ai miei figli l’ho insegnato e sebbene non lo parlino, lo conoscono, lo capiscono benissimo. Questa cosa me la sono tenuta dentro sempre, non l’ho mai lasciata perdere. Ed è arrivato un momento in cui finalmente sono stata libera di usarlo, di scriverne, di essere tradotta all’estero pur esprimendomi in siciliano. Certo, in questo senso noi autori siciliani dobbiamo molto a Camilleri. È evidente. Camilleri ha sdoganato il dialetto dopo secoli di censura. Per me è stato come recuperare la libertà, gli affetti. E soprattutto la memoria.

Nel suo ultimo romanzo parla dello sguardo che i siciliani hanno verso il futuro, cito testualmente “I siciliani non guardano mai avanti, il domani è carico di incertezze, preferiscono i ricordi, quelli sì che sono sicuri e poi si possono manipolare secondo i propri bisogni”. Lei invece come guarda il suo futuro di scrittrice? C’è una storia che custodisce ma che ancora non ha trovato la voce per venire fuori?

Non so se ho una storia segreta, probabilmente sarebbe la storia della mia trasformazione, del mio passaggio verso la libertà. Ho avuto una vita molto compressa perché sono nata e cresciuta in una famiglia borghese siciliana e pur avendo dei genitori laureati, con un certo livello culturale, loro appartenevano comunque a una generazione per la quale i figli erano estensioni naturali dei genitori. La conquista della libertà per me è stata molto faticosa essendo una ragazza degli anni ’70 perché all’interno della famiglia non è stato semplice. Parlo della conquista non di una libertà di agire, ma di una libertà di essere, di manifestarsi per quello che una persona è. Tutti ci adattiamo a degli schemi, chi più chi meno. E anche quando la famiglia rappresenta un’oasi, all’esterno dobbiamo sempre un po’ adattarci a convenzioni, anche a immagini che continuiamo a proporre. Ecco, la scrittura per me è stata libertà. E quello che mi piacerebbe raccontare è anche una libertà di uscire fuori dagli schemi del corpo. Non so se ci riuscirò, ma è quello che vorrei fare domani.

Sempre parlando di futuro, declinato all’esterno. Si immagini su una bella terrazza a Mondello, guardando il mare lei e una giovane autrice. Se tra un calice di vino bianco e una crostata al gelo di melone una giovane autrice le dicesse di avere un romanzo nel cassetto cosa le consiglierebbe?

A chi ha una storia importante che merita di essere conosciuta, e per importante non parlo di chissà quale grande trama ma del sentimento che ci sta dentro, io consiglierei di rischiare il tutto per tutto. Che per me si traduce nel coraggio di perseguire la verità. Di non nascondersi dietro a tecniche ruffiane utilizzate solo per attirare il lettore. Ma di esprimersi in tutta libertà. Perché quello che lettore vuole è la verità. Quindi le consiglierei di raccontare con verità. Come sempre il lettore si affida non tanto all’intreccio, agli eventi, tanto dai greci in poi è stato raccontato tutto, ma alla voce.

Intervista a cura di Angela Vecchione

Angela Vecchione è autrice di La Piazza, edito da Robin Edizioni

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