” Quand on veut donner une image du monde à travers un être, il est très difficile de choisir une femme : les femmes ont une existence trop limitée “

Intervista a Marguerite Yourcenar

Che Saffo fosse una aristocratica che a Lesbo dirigeva una sorta di collegio dove si formavano le future mogli dei nobili greci è abbastanza certo. Che l’oggetto dei suoi amori e delle sue liriche fosse uomo o donna non si sa con certezza. Probabilmente erano le stesse giovani donne che Saffo iniziava alle “arti della delicatezza”, la poesia, la danza, la lira, quella raffinatezza con cui avrebbero dovuto deliziare i loro sposi nel chiuso delle case dell’isola di Lesbo. Forse era proprio Alceo, o un pescatore, o un uomo indifferente. O sempre solo il surrogato della sempiterna fanciulla. Non importa. È proprio questo il punto, ciò che rende i leggendari amori di Saffo incredibilmente moderni: l’evanescenza della figura amata, uomo, donna, boh. Perché le ragioni per cui amiamo o ci leghiamo all’altro non hanno sesso o lo trascendono. Sembra proprio che Saffo stia laggiù, in fondo al tempo a confonderci e a scardinare già quell’identità sessuale dell’altro che per secoli è stato un punto di riferimento, una bussola sempre più necessaria per fondare e confortare continuamente l’identità della cultura patriarcale, continuamente minacciata e bisognosa di conferme. Quel canale in cui sasso dopo sasso, istituzione dopo istituzione la cultura occidentale ha instradato le molteplici varianti del piacere, tra tassonomie e quel tic dell’eterna dicotomia dentro/fuori, legittimo/illegittimo, etero/omo, eccetera.

Nel Giappone Heian, viveva una donna leggendaria come Saffo, Murasaki Shikibu, autrice del Genji Monogatari (The tale of Genji, Penguin classic, La storia di Genji, Einaudi tascabili) la storia monumentale del principe Genji, il principe splendente. Anche la storia di Murasaki è piena di vuoti e di ombre come quella di Saffo. In un romanzo su di lei (Murasaki, edizioni Menoscuarto) compare Murasaki, una donna la cui grazia (sicuramente il vero splendore) è un luogo nascosto, minacciata ma anche capace di sopravvive caparbiamente, di planare attraverso una cultura che la vuole prigioniera. Sotto il nome di Koji, la vediamo tra i corridoi del palazzo dove rivaleggia con i suoi fratellastri, i figli del primo ministro, lasciandoli assolutamente indietro nell’arte della scrittura, del disegno e della poesia. Dopo diverse vicissitudini e nomi nuovi, arriva fino al bosco dove ci addentriamo e dove Murasaki comincia una nuova vita. Qui un vecchio saggio cancella i disegni che la donna traccia per terra, lasciando un pezzo di luna qui, un altro di fiume là per insegnarle che tutto quello che ci lega ci fa anche soffrire. Poi arriva il freddo, la morte del vecchio saggio e finalmente Murasaki si lascia tutto dietro, “aspettando la primavera come chi non si aspetta niente”. Come la Saffo di questo racconto di Beatrice Masini, affacciata ad una roccia dalla quale non salta ma da cui guarda la vecchiaia che è arrivata, senza aspettarsi niente.

Non è solo il personaggio di Murasaki, con la sua delicatezza e caparbietà, con questi due fratelli buoni solo alla guerra e un maestro che percepisce e ne coltiva le doti a farmi pensare alla Saffo della storia di Masini. Anche la forma del narrare mi riporta tra le pagine di Io sono la mela e tra le illustrazioni di Pia Valentinis. E cioè un racconto che si sofferma sulle trasformazioni impercettibili dell’animo della poetessa, un atteggiamento narrativo racchiuso in quella mela sull’alto dell’albero, che Saffo osserva, in cui si rispecchia, e che è poi il filo rosso della narrazione. Mela come quel frutto che il “mono no aware” della cultura giapponese si strugge ad osservare fiorire e sfiorire eternamente, senza mai cogliere del tutto.

Il mondo a cui ritorna Beatrice Masini e che racconta in piccole stampe è un mondo primordiale. Pieno di simboli, dove le parole e le cose sono sempre altro, un mondo di misteriose interconnessioni, di patti e sacrifici. Dove gli dei brillano nei cieli, agitano i mari, scendono in terra, si immedesimano, si mischiano, ci legano a loro per sempre o ci sbranano, per ritornare in cieli che ci sovrastano. E gli uomini si gettano tra i flutti, sono inghiottiti dal buio, si lanciano in voli per scomparire  o ritornare in una metamorfosi continua. E tutto è comunque sempre stravolto anche quando sembra che non sia accaduto niente.

Le decisioni dei protagonisti di questa storia, di una madre Cleide, di un padre, sullo sfondo i pensieri di una serva, ma soprattutto quelle intime di Saffo, la protagonista, passano per i paesaggi, per il mare, per il telaio, per i passi della bambina, non per un discorso storiografico o filologico. Sono pensieri e decisioni scarne, nude come gli oggetti e le stanze, e tenaci. La madre e la serva hanno pensieri netti sul loro destino, su quello dei loro figli, su quello delle bambine, domande a cui hanno già delle risposte che sono quelle che sono perché così deve essere. E in questa trama di pensieri si muove la bambina  Saffo. E anche lei dentro, in cuor suo sa che non sarà mai come Filide, la serva, né come sua madre.

La storia di Saffo è raccontata attraverso brevi passaggi tra dentro e fuori, la finestra che incornicia la vita, la traversata in mare poi di nuovo il buio di dentro. In fondo anche la via di fuga di Saffo è solo un corridoio.

Parole, sentimenti che rimbalzano sull’acqua, si perdono nell’orizzonte, cercano il frescore del gineceo, si sfilano dalle corde della lira, cadono secche in mare. Le parole sono più importanti delle cose e sono tutto quello che Saffo possiede. Le parole sono semi segreti, bucano il tempo. Sono il sigillo del sodalizio tra Saffo e le sue discepole. La parola ha la forma di un cuore riempito non divorato dall’amore. È un arco tra due tempi diversi. Quello che resta. Come racconta Masini, Saffo resta, canta l’amore che riempie e svuota. L’altro, l’oggetto d’amore, una fanciulla o un uomo, parte, abbandona l’amante e, per definizione, non può parlare né cantare.

I capitoli di questo racconto si susseguono come minuscole melodie, disegnano anelli di fumo, scavano gallerie nell’aria. L’aria e la luce e quel minuscolo punto che sta dentro, in cui invece la luce non passa e che in qualche modo si fa poesia. Il ritmo della narrazione è quello che resta ad ogni passaggio, ad ogni decisione piccola o grande che si allarga in cerchi concentrici. Il gesto si esaurisce e si sedimenta in tante vibrazioni tutto intorno. Le vibrazioni si assottigliano, sono quasi impercettibili e attraversano intimamente le età di Saffo che si avvicendano.

Masini lascia cadere tutte quelle questioni che Saffo trascina da sempre con sé, il presunto suicidio lanciandosi da una rupe lontana da Lesbo per un amore non corrisposto, le relazioni passionali con le ragazze del tiaso. Invece tra guizzi di luce e schegge di argilla, le stesse  su cui scriveva per nascondere le sue poesie, disegna una donna che desidera, che immagina, che compone poesie. Una donna, la compagna che cominciò il mio canto, come recita Alda Merini. Il canto d’amore che arriva fin qui, in questa modernità dove il discorso amoroso è ancora e sempre più un frammento, come quelli di Saffo, un coccio rotto. Perché  l’amore spezza la lingua, taglie lo sguardo, ti divide, ti fa tremare, ti fa morire, ti fa rivivere come cantava lei. Per arrivare alla conclusione di Barthes (che cita nel suo “Fragments d’un discours amoureux” solo uomini, eccetto lei Saffo) che il discorso d’amore non può analizzarsi, può solo simularsi, come accade in poesia. Frammenti che riempivano volumi e volumi nella più grande biblioteca dell’antichità. Frammenti andati dispersi.

Se la Saffo di Yourcenar (Sappho ou le suicide) è un simbolo, un sacrificio, una creatura troppo alata per essere ancorata al suolo e troppo carnale per volare, qui Masini sceglie di ritrarla invece come una donna, figlia, madre e oramai anziana. La Saffo di Yourcenar un po’ come l’Antigone di Elsa Morante è una specie di fantasma, una danzatrice su una corda, che ha perso le ali, e al loro posto possiede bauli di “sfilacciature d’uccello e pietre false”. Una vagabonda che cerca giovinezza e quello che non è mai stata nel contatto con delle ragazze ancora più sventurate e misere di lei, con Attide, in un mondo sordido di strade, contrabbandi e artiste ambulanti. Una vittima che la vita ha indurito e che può offrire solo il conforto dello sconforto. Masini invece accenna ad una donna che non resta tragicamente chiusa in un cerchio, non più di tutti quanti noi. Non la vittima di un destino di donna a metà, che manca anche il proprio suicidio, ma capace in qualche modo di sentirlo fin da bambina e padroneggiarlo anche lì sulla scogliera.

In questo breve testo pensato per la letteratura per ragazzi, Masini cerca di sottrarre Saffo agli interessi, tutti quegli interessi estetici e politici che costruiscono culture e controculture, il politically correct e ciò che non è, che da subito e poi nel corso dei secoli hanno costruito anche “Saffo”, esaltata, ridicolizzata, omosessuale, eterosessuale, virtuosa o crepuscolare, eroina o antieroina. E assieme a lei, la sua poesia tradotta fin dall’Antichità, calmata, edulcorata o resa ancora più ardita, fino a alle meravigliose riscritture di Alda Merini, Goliarda Sapienza o della stessa Marguerite Yourcenar.

Quando Yourcenar ritorna a Saffo in La Couronne et la Lyre, si allontana un po’ da quella figura livida di Les Feux. Ma anche qui la sua Saffo è ancora troppo vecchia, troppo appassionata, troppo arsa, troppo piena di rughe. Masini ci restituisce invece una donna più contemporanea, meno grottesca. Saffo resta un’immagine manipolabile che Masini però in qualche modo decide di non lanciare in un cielo tatuato di stelle (“Et, le coeur dévoré d’amour/ Alla rouler dans les étoiles” Le saute du tremplin, Théodore de Banville), ma piuttosto lascia scorrere acrobaticamente tra le nostre vite, anche tra quelle di ragazzi che aspettano al semaforo di decidere quello che sono e quello saranno.

Silvia Acierno