In cima alla collina che domina la città di Liberec, ultima fermata della funivia, meta preferita di amanti e suicidi, attratti dalla magia della solitudine, dall’ebbrezza dell’infinito, dalla pericolosa bellezza dell’abisso alla quale è così difficile resistere (“la vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura”, scrive Kundera), alle spalle di un Cristo piegato dal vento, sorge un hotel tra le nuvole, centro di questo romanzo e del mondo dei suoi personaggi principali, ognuno con la sua particolare linea della vita che è qualcosa di diverso in ognuno di noi. Per me sono i grafici del tempo atmosferico (dice il protagonista). Per Franz sono i suoi amici morti. Per Zuzana, i test. Per Jegr, il museo del blocco orientale. Per Ciuffo, le bottigliette di happylife.
Un microcosmo di personaggi insoliti, strampalati, strasolati, ciascuno con le proprie piccole o grandi manie e i propri segreti, che l’agile penna di Rudis, viaggiando leggera, tra frasi brevi e incisive e suggestive iperboli e metafore, svela a poco a poco. Ma ve lo racconterò più avanti ripete spesso il protagonista e io narrante, come stringendo un patto con il lettore (non preoccupatevi, sembra dire, non vi deluderò, vi parlerò di tutto e di tutti, ma concedetemi il mio tempo).
Queste interazioni con il lettore e la concisione dei paragrafi contribuiscono a dare ritmo a un racconto fluido e coinvolgente, intenso, ricco di sfumature.
Fleischman è il nome che si è dato il protagonista, in omaggio al nonno mai conosciuto, morto schiacciato da un carro sovietico, ma che, in qualche modo, ha indirizzato il suo destino. È il tuttofare del Grand Hotel, da quando Jegr, un lontano parente che lo aveva preso con sé dopo la scomparsa dei genitori, spinto più dalla promessa di un sussidio che da uno slancio d’affetto, ne è diventato, in maniera tanto repentina quanto inspiegabile, il responsabile. Fleischman è un solitario, emarginato fin da bambino, vittima dei soprusi e delle angherie dei compagni di scuola, con un’ossessione maniacale per i numeri e per i nomi (e i soprannomi). Da una realtà che non accetta e che non lo accetta lo salva la scoperta della meteorologia: guardai le nuvole che scorrevano basse sopra la via. Le nuvole che portavano la pioggia dal Mare del Nord e a un tratto capii. Intendo dire che capii tutto delle nuvole e anche di me stesso. Mi tranquillizzai. Studia il tempo, annotandone le variazioni tre volte al giorno, mangia biscotti, beve limonata, spia dal buco della serratura chi fa meglio di lui (spia i corpi, le azioni, ma anche le conversazioni, sempre con un occhio soltanto, ma con entrambi gli orecchi), parla poco ed è inchiodato alla sua città dalla paura di andarsene, dall’impossibilità di andarsene, dall’impossibilità di raggiungere qualcosa. Cerca dicompensare questo suo immobilismo con lo studio delle mappe, geografiche, storiche e soprattutto meteorologiche, perché è convinto che chi conosce quelle mappe conosce il mondo intero.
Fleischamn spiega tutto attraverso i fenomeni atmosferici, sia come metafora della vita, sia come causa primigenia, fattore scatenante delle più importanti decisioni umane, costantemente influenzate da nuvole e vento, alta e bassa pressione.
Ma se sa tutto del tempo, dei venti, della pressione, delle nuvole, del punto di rugiada, non sa nulla del mondo reale, dei rapporti umani, delle donne. L’opposto di Jegr, il cui universo estremamente concreto è fatto di fiki fiki e di pallone, laddove quello evanescente di Fleischman è fatto di nuvole e sogni. Lo iato tra queste due opposte concezioni della realtà è apparentemente incolmabile, tra i due non scorgiamo alcun punto di contatto, eppure li unisce una sorta di affetto sottaciuto, che qua e là affiora appena.
Ma qual è, poi, la realtà? Non tutto è sempre come appare: a volte raccontiamo agli altri, ma prima ancora a noi stessi, storie a cui finiamo col credere, e diviene sempre più difficile distinguere il falso dal vero, ciò che è accaduto, da quello che sarebbe potuto (o dovuto) accadere. Non solo il presente e il futuro, ma anche il passato possono essere piegati alle esigenze di chi racconta (“la realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi se vogliamo essere” scriveva Pirandello). E ridisegnare il passato nel ricordo e riscattarlo attraverso le azioni del presente ci consente di fare pace con la nostra coscienza e di costruire un futuro che ci permetta di porre rimedio ad antiche colpe, nostre o altrui.
Spesso gli scrittori cechi fanno i conti, in maniera più o meno esplicita, con la storia recente del loro Paese. I comunisti, i nazisti, la primavera di Praga, i carrarmati sovietici. Rudis affida questa funzione di “voce” della storia al vecchio Franz, ma anche ai racconti di Fleischman su suo nonno, e scandisce lo scorrere del tempo attraverso un ossessivo rimarcare i cambiamenti della toponomastica, a sottolineare i passaggi storici (e linguistici) che si sono succeduti.
La storia (quella dei popoli, ma anche la propria personale) è un cerchio, uno deve finire là dov’è nato è il motto di Franz, ma per tornare bisogna andarsene e andare via, staccarsi dalle proprie radici, dai propri affetti, dalle proprie paure, è la scelta più difficile. C’è una sola strada, percorribile in un’unica direzione: verso l’alto. Anche se a volte, prima di spiccare il volo, è necessario precipitare, magari nel proprio abisso interiore, nel proprio infinito personale. E così, d’improvviso, il protagonista capisce: la sola via di fuga possibile è attraverso le nuvole, affidandosi al vento.
Fabio Sarno
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