Per la mia tesi magistrale, mi sono occupata di Elsa Morante.
Non voglio prendervi in giro declamandone le lodi, non l’ho scelta perché avvertivo con lei un qualche tipo di legame o perché i suoi libri mi avessero cambiato la mia vita.
Fondamentalmente, prima di otto mesi fa, io Elsa Morante non la conoscevo. Certo, ne avevo sentito parlare, avevo studiato quel piccolo paragrafo che le antologie contengono su di lei, breve e sintetico, posto lì a mo’ di quota rosa e abbastanza inutile. Conoscevo i titoli dei suoi romanzi più importanti, se non piangi alla fine della Storia sei una persona insensibile (spoiler: io non ho pianto), il suo amore complicato per Moravia.
Una conoscenza superficiale, dunque, quasi inesistente.
Non avevo aspettative e se le avevo, Morante è stata in grado di ribaltarle nel giro di poche pagine. In questi otto mesi, l’ho conosciuta, ho visto il suo studio alla Biblioteca Nazionale di Roma, i suoi quadri, i suoi dischi, la sua scrivania. Ho visto, dietro un vetro, il manoscritto del suo primo romanzo, gli scarabocchi, le liste di parole e di possibili titoli.
L’ho incontrata tra le pagine, nelle lettere, quelle di suo pugno e quelle ricevute, nelle interviste di chi la conosceva e nei saggi di chi poi ha cercato – come nel mio caso – di grattare via quello strato di polvere sotto il quale, spesso, vengono nascoste le opere delle grandi autrici.
Ci ho scritto una tesi, ho provato a comprenderla, non ho la presunzione di averlo fatto bene, ma sono soddisfatta al punto di pensare di averlo fatto al meglio delle mie capacità. Quello che ho concluso, al termine di questi otto mesi, è che Elsa Morante non era sicuramente una persona facile. Era scostante, un po’ masochista e anche vanitosa. Ma era un genio.
Elsa Morante non le mandava a dire. Non scriveva per ricevere apprezzamenti, sapeva che difficilmente sarebbero arrivati anche se, in fondo, non credo abbia mai smesso di sperarci. Non si riconosceva nei movimenti letterari dell’epoca, era sempre in anticipo o in ritardo rispetto al resto dei suoi colleghi. Negli anni del Neorealismo, quando – per intenderci – Calvino aveva da poco pubblicato Il sentiero dei nidi di ragno (1947) e Viganò avrebbe di lì a poco fatto uscire L’Agnese va a morire (1949), Morante scrive Menzogna e sortilegio. Se non avete ancora letto questo monumentale romanzo, è il momento di recuperarlo.
Menzogna e sortilegio racconta la storia familiare di Elisa De Salvi. Anzi, è proprio Elisa a raccontare le vicende della sua famiglia, lei che – a venticinque anni – si definisce una «vecchia fanciulla». Dopo la morte della sua protettrice, Rosaria, Elisa, da sempre una bambina solitaria, incapace di relazionarsi con il mondo esterno, si guarda allo specchio e si chiede chi è. L’intero romanzo parte da questa banale e potentissima domanda: «Chi è questa donna? Chi è questa Elisa?». Solo provando a trovare una risposta a queste domande, Elisa si augura di guarire dal male che ha ereditato dalla sua famiglia, il male della menzogna, e riuscire finalmente ad uscire dalla sua cameretta, divenuta ormai una prigione.
Elisa si definisce una «vecchia fanciulla», una «sepolta viva», «una monaca pazza», un’ammalata, non una «santa» ma una «strega». Elisa è tutti e nessuno al tempo stesso. Narratore onnisciente per le prime parti del romanzo, sembra al corrente di ogni cosa accaduta prima ancora che lei nascesse. Com’è possibile? Chi è lei davvero?
Per capire appieno, per riuscire ad arrivare al capo del gomitolo intricato della sua vita, Elisa risale alle origini, ripercorre la storia dei suoi parenti-eroi. D’altronde, come si può sapere chi siamo se non sappiamo chi è stato prima di noi? Elisa chiede a loro, ai fantasmi dei suoi genitori e dei suoi parenti. Anzi, sono proprio loro a comparirle e sussurrarle all’orecchio la loro storia che lei, come una fedele segretaria,
scrive. Scrive di sua madre Anna, il «primo dei suoi amori infelici», e di suo padre Francesco, il Butterato. Del Cugino Edoardo e della follia della madre di lui, Concetta. Di come questi personaggi si siano ammalati di menzogne e di illusioni, preferendole alla verità. Scrive di nonna Cesira, invecchiata prima del tempo dopo che le sue speranze di riscatto sociale sono crollate sotto il peso di un matrimonio fallimentare con un nobile decaduto; di nonna Alessandra, contadina e instancabile lavoratrice ma cieca di fronte all’evidente disprezzo del figlio, e di Rosaria, l’unica che è stata in grado di dimostrare affetto alla giovane narratrice.
La storia che prende vita nelle mani di Elisa sembra a tutti gli effetti un romanzo familiare cioè, come ricorda Freud, un racconto che i bambini si creano durante l’infanzia per sfuggire alle angherie o all’indifferenza dei loro genitori, immaginando di essere in realtà i figli di principi, principesse, re e regine e creandosi così un universo alternativo in cui possano finalmente ricevere l’amore che manca loro nella realtà. Chi è Elisa, dunque? Una nevrotica o una strega?
Al termine del libro, solo una risposta mi è passata per la mente. Una risposta che, a ben vedere, era chiara fin dall’inizio.
Elisa, come colei che le ha dato la vita, distinguibile in controluce tra le lettere del nome della sua creatura, è una scrittrice. La giovane si dimostra tutt’altro che inabile spettatrice. Al contrario, diventa inquietante conoscitrice di tutti i segreti sentimenti e pensieri dei suoi parenti-eroi, i quali, nelle sue mani, diventano personaggi. Infatti, è proprio con un componimento dedicato a loro, ai personaggi, che si apre la prima parte del romanzo:
Voi, Morti, magnifici ospiti, m’accogliete
Nelle vostre magioni regali,
i vostri miniati volumi
sfogliate graziosamente per me.
Lo so: io, donna sciocca e barbara,
non altro che suddita e ancella a voi sono.
Ma pure il nastro d’oro delle vostre
imprese, e arroganti amori,
orna la mia fronte servile
o Sultani infingardi.
Altro io non sono che pronuba ape
fra voi, fiori straordinari e occulti.
Ma sulle effimere mie elitre
pur vaga una traccia rimane
del vostro polline celeste.
E il vostro miele
è tutto mio!
Nonostante, quindi, Elisa si mascheri da «pronuba ape», in realtà è lei, sin da subito, ad annunciare tronfia ai suoi eroi che «il vostro miele / è tutto mio». È lei che, dall’alto, tesse le fila della loro storia.
Si è speculato molto su quanto di biografico ci sia in questo romanzo. Sicuramente vi sono molti aspetti, a cominciare dall’estrema somiglianza tra i nomi. I due padri di Francesco ricalcano i due padri della scrittrice: Augusto Morante, il padre putativo, e Francesco Lo Monaco, il padre biologico.
Le speculazioni sono state e sono molte. Di risposte certe, però, Morante non ne ha mai fornite e forse è giusto rispettare il suo volere. Tutto quello che ha detto è che scrivere questo libro le ha permesso «il passaggio dalla fantasia alla coscienza (dalla giovinezza alla maturità)». Per lei questo passaggio è stato anticipato dalla guerra «è lì che, precocemente e con violenza rovinosa, io ho incontrato la maturità. Tutto questo, io l’ho detto nel mio romanzo Menzogna e sortilegio, anche se della guerra, nel romanzo, non si
parla affatto».
Non si parla di guerra, è vero, ma di passaggi, di limiti, di confini sì: tra vita e morte, tra giovinezza e vecchiezza, tra sanità e follia, tra verità e bugie.
Menzogna e sortilegio è forse il romanzo meno conosciuto di Morante ma anche quello che più vale la pena recuperare. Contiene una grande varietà di ritratti femminili, ambigui, perturbanti; è un romanzo intricato, antico e moderno al tempo stesso, e per questo estremamente contemporaneo.
Margherita Insalata
La Storia di Elsa Morante
Elsa attraverso lo specchio della narrazione
ELSA MORANTE, Fuori del limbo non v’è eliso
E tu cosa ne pensi?