Con La Storia, – riportata sugli schermi da Francesca Archibugi, con la sceneggiatura di Ilaria Macchia, Giulia Calenda e Francesco Piccolo-, Elsa Morante si concentra con tutta se stessa, sacrificando corpo e anima e quella sua straordinaria capacità di narrare, in quel solo punto che importa. Lì dove l’umanità si disumanizza, nell’atto infinito ed assoluto di compiere il crimine più grande: uccidere l’altro, massacrarlo, sterminarlo, credendo di salvare se stessa. E invece nessuno si salva, le vittime sono anche carnefici, più uccidiamo l’altro, più moriamo noi stessi; è la logica della Storia, quella con la maiuscola, quella che ci schiaccia tutti.

Alla fine, quando tutto sarà raso al suolo, quando Ida e Bella impazziranno d’amore e di dolore, in quella stanzetta con il cadaverino di Useppe, quella misera stanzetta, quel giardino tra le macerie, in cui non può che rimanere per sempre la parte migliore di noi stessi, resta un seme. Il seme di un fiore (quello della citazione di Gramsci su cui si chiude il romanzo), – perché non importa se fiore o bambino, che forse metterà radici o forse no-, è la speranza, anche di un cambiamento. La Storia è stata e continua ad essere un grido di rivolta.

C’è una foto di Morante in cui lei è seduta sui gradini dell’ultima rampa di una scala. È un androne un po’ buio, ma lei sorride. Porta il foulard legato sotto il mento. È l’interno di una scala quella del palazzo del Testaccio, quartiere popolare di Roma, alle spalle del ghetto ebraico, in cui ha trascorso la sua infanzia. La foto gliela sta scattando Tonino Ricchezza. È salito su da Napoli, in quelle sue scappate dalla miseria e nobiltà, per accompagnarla nei sopralluoghi. Lei sta scrivendo La Storia. Ricchezza un giorno in cui mi ha raccontato molte cose, mi ha detto pure che mentre avanzavano lei raccontava di Nino e Useppe come se esistessero davvero, come se li avesse conosciuti davvero.

È il natale del 1971. Sulla scrivania, sul comodino di via dell’Oca, nei quaderni, nella sua testa lavorano le parole di Omero, quelle di Miguel Hernández, i versi di Cvetaeva, Tanizaki, Thomas Mann, sempre Cervantes…e poi l’amatissima Simone Weil. Sul manoscritto ha allineato tre lettere: TUS, Tutto uno scherzo. Uno slogan, una sintesi suprema, una specie di mantra che oramai va ripetendosi da tempo.

Il Mondo salvato dai ragazzini e le conferenze di Pro e contro la bomba atomica sono stati un manifesto, l’anticamera della Storia. Lo scrittore deve essere poeta, eroe e guardare negli occhi quello da cui il potere distoglie lo sguardo: lo scandalo, l’infezione della storia che ubbidisce sempre alla stessa logica. Quell’infezione che abbiamo ancora tutti sotto gli occhi, continuamente rinnovata, lì nello schermo del nostro stupido telefonino in cui si passa senza soluzione di continuità dai golden globe ai bambini che rimbalzano nelle braccia di genitori impazziti, lividi cadaveri di un’ennesima guerra. E l’infezione è ancora più abominevole; il potere non ci distoglie lo sguardo, ma stavolta ci obbliga a guardare, banalizzando i fatti, anestetizzandoci la vista.

Elsa consegna il manoscritto a Natalia Ginzburg. Come sempre la revisione delle bozze e la stampa del romanzo furono seguite con scrupolo e un’apprensione anche fisica. Corresse le bozze a Roma, accompagnata dai suoi amici. Gli amici sono quei “ragazzini”, tutti più giovani di lei, artisti oppure no (ci sono Patrizia Cavalli, Fabrizia Ramondino, Carlo Cirillo, Dario Bellezza, Enrico Palandri, Paolo Graziosi, Adriano Sofri, Alfonso Berardinelli, Adriana Asti, Tonino Ricchezza, lo spazzino, la gente che gravita intorno al Living Theater), drogati oppure no, amanti o figli, ma tutti assolutamente non conformi, fuori dagli schemi, vagabondi. Moravia, che rimarrà suo marito fino alla morte, è andato via dall’appartamento di via dell’Oca. Bill Morrow, il giovane pittore americano, che ha amato, è morto ed il dolore è stato devastante. La Mini-Morris gialla che guida zigzagando per andare fuori Roma, e raggiungere una festa di paese. Come il carrozzone del Mondo salvato dai ragazzini. Morante ha disegnato il perimetro di uno spazio, il suo, di sovversione (oggi diremmo queerness), assolutamente fuori dai territori dove si muove il patriarcato con i suoi compromessi, le sue glorie e stupidi compensi.

Il romanzo uscì il 25 giugno del 1974. In un mese si vendettero centomila copie. Sapeva che il suo romanzo avrebbe scatenato tempeste. A lei piaceva provocare, schierarsi contro e sentire quella energia che proveniva dalla libertà di mettersi contro tutti. Uscì in edizione tascabile perché tutti avrebbero avuto la possibilità di leggerlo, tutti dovevano leggerlo. Quel libro era dedicato a loro, a noi (che amiamo distinguerci dalla massa ottusa) lettori analfabeti e manipolabili. E così arrivarono tutti i lettori, uno ad uno, La Storia fu il romanzo più venduto, capolavoro della letteratura universale, oggetto di critiche e infamie.

Il dibattito nacque soprattutto perché una scrittrice, una donna metteva le mani sulla Storia (quella fatta dagli uomini, gli unici a poterla poi evocare ed interpretare) per denunciarne gli ingranaggi e le perversioni, riscriverla e (scandalo ulteriore) divulgarla. Era come se più il romanzo avesse successo, più critici e giornalisti si accanissero. La critica letteraria divenne solo un pretesto per fare critica ideologica.

Nell’estate del 1974 Pasolini pubblicò sul Tempo due articoli pieni di contraddizioni e di riserve. In quell’estate Elsa e Pasolini si erano allontanati perché Elsa si era intromessa in una questione privata. Ninetto Davoli si era staccato da Pasolini, voleva sposarsi e si sarebbe sposato. Ninetto chiese ad Elsa di parlare con Pasolini. Ma forse lei sarebbe intervenuta comunque. Difese la decisione del ragazzo e Pasolini non riuscì a perdonarglielo. Per lui, Elsa non era riuscita a cucire bene le parti della sua opera che rimaneva un’opera frammentaria, fatta di tre libri più o meno riusciti. Salvava la parte che racconta la preistoria familiare di Ida, come se Morante fosse stata capace di scrivere e riscrivere solo storie familiari alla Menzogna e sortilegio. Il secondo libro che racconta la storia di Useppe fino a quando madre e figlio si trasferiscono al Testaccio è un libro mancato, un ammasso di informazioni disordinate, raccolte e ripetute in modo ossessivo. Il terzo libro, che avrebbe per protagonista la morte e la distruzione, era, per Pasolini, il più bello.

Le parole di Pasolini ne fecero scaturire altre simili e aprirono un certo tipo di critica intorno al romanzo, che si è fatta fino a poco tempo fa. Così, Enzo Siciliano, amico di Moravia e Pasolini, e vicino ad Elsa, scrisse sul Mondo che la Storia era “divaricato, spaccato da un divario che si sana in modo fittizio, e talvolta presuntuoso”. Il dibattito che si svolse sulle pagine del Manifesto, portato avanti dagli intellettuali militanti della sinistra marxista, fu all’epoca un dibattito importante, centrale. Erano gli anni di piombo, anni di terrore, dei primi attentati rivendicati dalle Brigate Rosse. Nel 1978 Aldo Moro sarebbe stato assassinato. Ma mentre quel dibattito allora così acceso ha perso contemporaneità, il discorso attorno alla Storia resta attuale, aperto e con un maggiore carica sovversiva ed ideologica.

Per una certa sinistra Elsa aveva compiuto il peccato di aver fatto l’elegia della rassegnazione degli umili invece di predicare la lotta di classe. Dissero: mediocre scrittrice, bamboleggiante nipotina di De Amicis, un mediocre romanzo borghese e altro.

Un’altra parte della sinistra negò la tesi del romanzo della rassegnazione, facendo ironia contro i “geometri del marxismo” e sottolineando invece l’egualitarismo anarchico del romanzo.

Rossana Rossanda chiuse il dibattito, sotto il titolo di “Una storia di altri tempi”: “Se c’è un segno attuale della Storia è la fine della rozzezza della rassegnazione”.

Anche se questi sono gli anni della militanza letteraria di Elsa, il suo resta soprattutto un progetto poetico. La Storia è un grande esempio di quello che Susan Sontag chiama la responsabilità dello scrittore rispetto alla società e alla letteratura, quella che incarna gli ideali più alti di giustizia e verità per i quali bisogna lottare, senza appartenenze né fedeltà. Elsa lotta anche per la causa della letteratura, della poesia e dell’arte.

Scrissero che era un romanzo patetico, tradizionale nello stile e nella lingua. La voce narrante (divisa fra l’onniscienza del narratore ottocentesco e la donna del Testaccio ora veggente ora cieca) non convinceva. Scrissero che Elsa diceva troppo, svelava tutto, senza lasciare spazio al lettore. La Storia sarebbe stata solo una specie di kolossal cinematografico, con scenari di cartapesta appunto e l’arroganza di spacciare tutto per reale. I critici nelle loro poltrone si aspettavano qualcosa di diverso. La Storia non era né il capolavoro della Morante, né il capolavoro del secolo.

Ci furono pagine più entusiaste ma in qualche modo furono come guidate dalle parole di Pasolini. E così anche le critiche più positive restarono ambigue. Tante pagine di critica spese intorno alla necessità di ricondurre Elsa Morante ed il suo libro “problematico” ad una tradizione letteraria determinata. Per ragionare poi intorno a come Morante fosse stata capace di rinnovare la tradizione oppure no.

Quando si parla della Storia oggi molti studiosi continuano a muoversi in fondo sugli stessi binari (con eccezioni, soprattutto tra i gender studies). Se ne continua a discutere l’appartenenza a un genere, a una tradizione, alla modernità. René de Ceccatty, biografo di Elsa, continua a presentare il romanzo come avrebbero fatto quarant’anni fa. A salvare una parte, quella onirica, visionaria e a condannarne un’altra. Continua a rimanere sulla superficie e a cercare di definirlo. Definire un romanzo che Morante stessa voleva in fondo indefinibile.

Elsa soffrì e si infuriò per quelle critiche spesso meschine. Ma mi piace metterle sulle labbra una frase scorretta di Duras “les imbecillités théoriques” della cultura patriarcale. L’unico che si avvicinò forse di più al cuore del romanzo, al suo motore più cieco, fu Cesare Garboli, critico e amico, che lo interpretò come una specie di “parto pubblico”, calcando troppo la mano su un altro stereotipo della critica di matrice patriarcale, quello che, per le artiste donne che non hanno avuto figli, compara l’opera al bambino mai nato.

Del mondo salvato dai ragazzini, Morante aveva detto nel risvolto di copertina che era un romanzo d’avventure e d’amore, un poema, un memoriale, un manifesto, un balletto, una tragedia, una commedia, un madrigale, un documentario a colori, un fumetto, una chiave magica, un sistema filosofico-sociale, un’autobiografia. E della Storia, scrisse nella prefazione dell’edizione americana che il romanzo era “un’opera di poesia”, un atto d’accusa, una preghiera, la domanda urgente e disperata che si rivolge a tutti per un possibile risveglio comune. Morante gridava alla commistione dei generi, si prendeva gioco delle classificazioni (per secoli cavallo di battaglia della cultura di stampo patriarcale) in nome della scrittura, di un unico romanzo possibile “l’avventura disperata di una coscienza che tende, nel suo processo, a identificarsi con tutti gli altri viventi della terra”.

Ma soprattutto compiva una rivoluzione. Sostituiva all’uomo vitruviano, lì nel centro di quel perimetro in cui si è raccontata la storia dell’umanità, una coppia “subumana”: madre e figlio, Ida e Useppe, Useppe e la cagna Bella, una madre vicaria, dell’anima, che manterrà la promessa data al bambino: “Non potranno mai più separarci in questo mondo”. Metteva al centro tutto, razza, generi, poveri, ricchi, uomini e animali, felici e infelici, intersezionale e trasversale prima che l’intersezionalità fosse una moda. Si rivolgeva a noi che siamo ancora fermi lì sullo stesso punto dove le speranze tramontano, le forze politiche si disgregano, e ci sentiamo impotenti. E continua a chiederci (a noi che pensiamo di essere al riparo, che dobbiamo solo aprire gli occhi sul passato per “educare” i “giovani di oggi”) se vogliamo andare avanti, se ci sono modi diversi di essere umani. Lì già sul post-umano (teorizzato da Braidotti), a sfidarci (come amava fare), a chiederci con una forza letteraria titanica, se siamo capaci di creare forme alternative di soggettività, una nuova comunità. E lei a farcene intravedere una.

Silvia Acierno