Raccontare un poeta non è un’impresa da poco, in primis perché la spiegazione di un testo in versi ci porta inevitabilmente a disgregare il mistero – o meglio il segreto – che il testo custodisce e a disperdere in parole prosastiche quell’assoluta totalità che è la poesia. La parola segreto è di ungarettiana memoria, in quanto è proprio il nostro autore – in un’intervista per la Rai datata 1961 – a dire che una poesia è tale «quando porta in sé un segreto». Personalmente ritengo che queste parole siano una preziosa chiave interpretativa della poetica ungarettiana.

Se, infatti, molti ricordano il nostro autore come il poeta semplice del Novecento – diversamente dal concettuoso Montale – o come l’inventore di brevi e snelle poesie facilmente memorizzabili, a mio avviso Ungaretti si rivela fin da subito un autore di una certa densità. Fin dai tempi dell’Allegria (prima raccolta giovanile), Ungaretti scandaglia due tematiche che contraddistinguono tutta la sua produzione poetica: il tema del viaggio e il tema della memoria. Il frequente discorso sul viaggio si lega a questioni biografiche, poiché l’identità geografica ungarettiana è alquanto complessa. Il nostro autore nasce ad Alessandria d’Egitto da una famiglia lucchese, studia a Parigi, combatte sul fronte italiano la Prima Guerra Mondiale, insegna letteratura all’università brasiliana di San Paolo e trascorre a Roma gli anni della maturità.

Bastano questi pochi elementi a intuire con quanta difficoltà il nostro autore possa individuare una patria univoca. La tematica del viaggio va dunque osservata da una prospettiva ben precisa: non si tratta solo del viaggio come esplorazione, ma anche del viaggio come vagabondaggio, come un continuo errare che provoca un senso di sradicamento fino all’iperbole del considerarsi un profugo. Questa sensazione traspare in maniera molto chiara da alcuni versi dell’Allegria: «Sorpresa / dopo tanto / d’un amore / Credevo di averlo sparpagliato / per il mondo», scrive Ungaretti in un testo dall’eloquente titolo di Casa mia; «In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare» annuncia Ungaretti nell’incipit di Girovago (altro titolo eloquente); mentre in Allegria di naufragi il poeta annuncia di riprendere subito «il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare».

Il tema del viaggio si alterna a quello della memoria che si configura come unico antidoto all’oblio della morte. Sempre nell’Allegria, in una poesia dal titolo In memoria, Ungaretti ricorda l’amico defunto Moammed Sceab, donandogli l’eternità attraverso il testo poetico.
Queste due tematiche apparentemente lontane trovano un dialogo fecondo nella produzione più tarda del nostro autore e in particolar modo nella raccolta che prende il titolo di La Terra Promessa, e che potrebbe essere definita, appunto, come un viaggio nella memoria.

Questa raccolta – pubblicata nel 1950 – si configura come un viaggio immaginario e metafisico che il nostro poeta compie alla volta di una Terra Promessa che assume le fattezze di un Eden primigenio: Ungaretti compie un viaggio a ritroso, cercando di raggiungere la purezza originaria del Paradiso perduto, ma il viaggio si muta gradualmente in un naufragio che ci ricorda come la volontà di raggiungere l’Eden costituisca solo una crudele illusione. Il poeta si paragona ai più celebri viaggiatori mitici e diventa ora un Ulisse dantesco, che prosegue all’infinito il viaggio votato alla conoscenza, ora un Enea spaesato, che affronta una tragica traversata verso l’ignoto.

Tra le figure che si fanno allegoria del nostro poeta-viator ce n’è una che si staglia prepotentemente sulle altre: quella di Palinuro. Quest’ultimo è un personaggio virgiliano, più precisamente il nocchiero di Enea, che cade in mare durante la notte, tradito dal sonno. Palinuro naufraga e va incontro alla morte, ma la storia non finisce qui. C’è, infatti, qualcosa che riesce a resistere al tempo e questo preziosissimo “oggetto” si chiama memoria: Palinuro non svanisce risucchiato dai flutti, ma si muta in uno scoglio, in una roccia che nemmeno le onde più burrascose possono scalfire («Crescente d’ultimo e più arcano sonno, / e più su d’onde e emblema della pace / così divenni furia non mortale», recitano i versi conclusivi delle sestine dedicate al condottiero virgiliano). Dunque – se già nell’Allegria il ricordo aveva permesso al poeta di rendere viva una persona morta – la vicenda di Palinuro ci insegna che la vita è più forte della morte e che la memoria è l’anello di congiunzione tra assenza e presenza.

Ho definito La Terra Promessa come un viaggio nella memoria e come una raccolta dove i due temi del vagabondare e del ricordo si fondono tra loro: il poeta parte alla volta di una meta irraggiungibile e per farlo si volta indietro. Ricorre dunque alla memoria – attingendo a un passato letterario e personale – partendo dalla convinzione che la memoria possa fargli raggiungere una Terra Promessa che si configura come patria ideale. Solo la memoria, infatti, può prenderci per mano e guidarci nel passato, fino a condurci nella remota atemporalità che precede il peccato originale. Il viaggio però fallisce, o, meglio, fallisce la possibilità di raggiungere la meta, in quanto non esiste possibilità alcuna per l’uomo di tornare a un momento di purezza iniziale e di annullare la stratificazione della storia che resiste tenacemente, separandoci irrimediabilmente dalle origini. Tuttavia era stato Ungaretti stesso a scrivere tanti anni prima che «la meta / è partire» e personalmente – da amante di viaggi e cammini – non posso che concordare.

Costanza Brini