Il paese è una stanza. Un inciso che annega nello spazio bianco in quarta di copertina. Come le nebbie che avvolgono la Bassa padana e lasciano intravedere un paesello, uno dei tanti, che rivendica il suo ruolo sul palcoscenico accanto gli uomini e le donne protagonisti di questa storia.
Brando, Sara e Larcher. Toni, Marione e Sander, sono loro, gente alla buona, che abitano quelle nebbie. Sono i padri e i figli, le generazioni che condividono le stesse strade e le stesse piazze. Sono piani paralleli che galleggiano nello stesso spazio, si espandono ma senza mai toccarsi.
I primi tre – bambini, poi ragazzi e adulti nel fluire ondìvago di questa storia – sono forme geometriche con lati indefiniti, imprecisi. Poco alla volta si impara a conoscerli attraversi gli occhi della provincia, e, osservandoli con cura, si arriva a capire che abitano due sole dimensioni, intrappolati come figure piatte nel mondo di Flatlandia: si percepisce la mancanza di un elemento che non riesce a farli affiorare nello spazio tridimensionale. Solo la storia permetterà di vederli formarsi dietro le pieghe della foschia.
Gli altri tre sono i padri, uomini di paese, le mani gonfie dal lavoro e dall’alcool, specchi di un paesaggio fatto di campi umidi, strade sterrate, bicchieri di vino e corpi spenti da accudire. Come viaggiatori inconsapevoli, bloccati in un terminal che non dà loro via d’uscita, continuano a vagare tra i tavoli sghembi e l’acciottolato scivoloso, in arrivo e in partenza, la piazza è stata un aeroporto senza aerei, che non porta da nessuna parte.
Mattia Grigolo spezza il tempo, in questo libro, e ci mette dentro questi uomini e donne, figure mitologiche di una religione dimenticata. Vivono e pregano per ricordare se stessi e non farsi divorare dal dolore che dopo ogni tempesta lascia i suoi detriti a dimostrare quanto è stato forte, perché si è sempre fragili davanti al male. Le cose cattive sono più determinate delle cose buone.
E allora perché prendersi la briga di scegliere? Perché ricordare, scappare, ostinarsi a essere gente alla buona e niente di più?
Natale 1995, Michele smette di vivere, nel nodo di questa tempesta, e da quel momento diventa giudice, che determina le scelte dei suoi amici fino all’inverno dei giorni nostri.
Brando scappa, ma poi torna; Sara resiste, ma rimpiange; Larcher lascia andare, ma non perdona.
In questa storia ogni riga è fatta di nebbia e fango, sabbie mobili che fanno avanzare e immergono nell’irrimediabile. Non si può scegliere di non sapere: questo fiume è ricco di anse e non si è mai pronti alla prossima curva.
Ma si precipita, ogni giorno è Natale, una storia che bisogna tornare a vivere e raccontare. L’autore ci immerge nel fluido denso dei ricordi, con una prosa lenta ed efficace, semplice e realista nelle parole dei protagonisti, mai spese invano. Messi da parte fronzoli e dialoghi astratti, qui c’è spazio solo per la verità.
Lo sa anche il parroco del paese, don Maurizio, che ha visto tutto, ha guardato oltre i dogmi e intravisto le ombre sfocate sotto le luci dei lampioni: tre ragazzi e i loro padri, e i cani sciolti sullo sfondo, pronti ad abbaiare al primo sconosciuto, uno come lui che ha vissuto e poi è andato. E poi è tornato. Tornano tutti.
Anche i morti? Di certo le loro ombre.
“Ce ne siamo andati tutti, pure noi che siamo rimasti qui” dice Larcher
“Non è vero invece – dice Brando, – siamo tutti rimasti qui”.
Yari D’Ambrosio
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