“Sebbene l’odio oggi più che mai non voglio perderlo. Mai. E l’afferro per le caviglie i polsi. Non perderlo mai.” (Ancestrale G. Sapienza)

(Ancestrale G. Sapienza)

Quel fuoco che rotola giù dalla strofa della scrittrice newyorkese Grace Paley (A women invented fire and called it the wheel), si ferma in qualche modo di fronte al rogo che accende Antonio Franchini in questo suo romanzo. È come se la ruota non lo alimentasse ma deviasse la sua traiettoria. Perché in fondo quella di Franchini è una traiettoria maschile. Traiettoria dialettica eppure dolorosa, impastata soprattutto di vergogna, tanta, troppa, mai superata.

Quella donna come Angela, la madre dello scrittore, così arraggiata, pronta ad “eruttare” come il Vesuvio la conosco bene, ne ho viste mille repliche, ma era piuttosto una specie di spina conficcata dentro molte donne che mi circondavano, vicine, molto vicine, e lontane; una spina che, quando cercavo di estirpare però per guardarla meglio si sgretolava tra le dita, e sotto, spesso, restava una donna diminuta, sopraffatta dalla vita. La vedevo bene, giovane e luminosa, dentro a quel fossile che le si era formato attorno. C’era qualcosa di quella rabbia che non gli apparteneva davvero, veniva da prima, veniva da fuori, veniva da quegli uomini che le stavano a fianco in un modo che non apparteneva neanche a loro, anche se loro ne traevano più vantaggio, aderivano meglio, senza troppa fatica al modello. Le donne invece soffrivano e più soffrivano più si avvelenavano. Più soffrivano e più tacevano e quando parlavano quell’unica volta o erano lapidarie o arroventavano tutto e tutti. Quella spina ce l’ho anch’io dentro, me la tolgo, ma ricresce come la coda della lucertola, l’afferro per la punta, si torce, cerco di guardarla con benevolenza.

Angela, meravigliosa protagonista di questo romanzo è anche la versione femminile di Federí di Via Gemito di Starnone, entrambi eroi senza tragedia, entrambi portano in petto una violenza, quella specie di astio che li rende protagonisti assoluti agli occhi dei loro figli. Entrambi i romanzi appartengono o compongono una direzione di una scuola letteraria italiana. Eppure, questa somiglianza, quasi specularità, lavora in un modo non ovvio. La comunanza non sta solo nei tratti vanagloriosi dei due eroi, ma nella parte buia, quella che non si illumina, perché tutte le luci sono puntate su Angela, come erano puntate su Federico. Nel buio di Via Gemito c’era Rusinè rosicchiata, divorata dagli eccessi del marito; in Il fuoco che ti porti dentro, c’è  un padre mansueto tanto quanto Angela è esuberante, educato, tanto quanto Angela è una specie di “vaiassa”. In questa zona calma, lugubre quasi, lontana dai fuochi di artificio dei protagonisti, si affatica l’amore filiale, quello che si è allenato ai litigi, alle botte (Federico picchia Rusinè, Starnone né è sicuro, ma in un atto estremo di devozione filiale e di autoinganno si presenta come chi ricorda, ricorda l’occhio gonfio, le parole che volavano prima dei colpi, ma sono solo i suoi ricordi forse fallaci, forse contaminati dalla sua volontà di vendicarsi di quel padre così invadente) che in fondo, in quella zolla più primordiale di cui è fatto, continua ad essere riversato su entrambi i genitori, intatto, incapace di smembrarsi: perché siete la stessa cosa, due pagliacci. In quello spicchio male illuminato c’è l’altro genitore, dunque, ma ci sono pure Federico per Starnone, e Angela per Franchini. C’è soprattutto quello che è stato sciupato, dissipato.

Starnone lo formula molto bene in Via Gemito, che è anche una sottile teorizzazione sull’arte e sulla scrittura. Non vuole scrivere per fare il panegirico del padre, per adularlo, già lo ha fatto abbastanza Federico da vivo, sta inseguendo un’altra cosa: non quello che c’è o c’è stato, ma tutto quello che si è dissipato. “Correvo dietro alla vita che si sciupa, sopraffatta dalla smania dei risultati ciò volevo rintracciare I bevitori, quel quadro me lo ricordavo pieno di sciupio”. Tutto quello che Angela si è persa.

Scrivere così male della propria madre, è una specie di gran colpo di scena, una strada poco percorsa nella letteratura scritta da uomini. Angela, mia madre è un mostro, guardatela. Una scelta anarchica che forse è il tributo più struggente che Franchini rende alla figura materna, lei che “ha sempre perseguito un’idea di diversità”. In un certo senso la scrittura femminile è andata molto oltre, ha affondato il coltello molto più giù. Rimanendo nel panorama italiano penso ovviamente ad Elena Ferrante fino a Donatella di Pietrantonio e una recentissima Alessandra Carnaroli. Franchini anticipa il passo successivo in questa disanima al vetriolo della figura materna. E il botto è ancora più forte perché viene da uno scrittore, forse meno allenato a questo tipo di analisi brutale, a pelle. Eppure, continuo a pensare che una donna non avrebbe raccontato così l’odio per una madre. Non avrebbe equivocamente esibito quel ventre deformato, squarciato da una cicatrice che non è lo sfregio di nessun parto ma di una operazione invasiva. È una mia convinzione che forse è solo l’ennesimo pregiudizio.

Nel suo Leggere gli uomini, Petrignani ripercorre la figura della madre nelle opere di scrittori da lei amati. Dall’attesa di Proust per quel consolatorio bacio prima di andare a dormire, al diario del lutto di Roland Barthes, alla Promessa dell’alba di Roman Gary, con quella madre eccessiva (come Angela) e grandiosa. Una storia di madri “gigantizzate”. Petrignani ricorda anche i rapporti non idilliaci di Simenon con la madre fino alla madre di Manganelli, terribile madre che prima di andare a letto diceva al figlio “vammi a prendere il veleno che mi voglio suicidare”, madri che ti camminano sopra per storpiarti. Per arrivare alla affermazione di Buzzati: “la donna è una creatura straniera”. Punto di partenza e di arrivo anche di Franchini, che, parlando da dentro questa tradizione, ribadisce il mistero di cui non sembra venirne a capo.

È come se Franchini restasse sempre su un livello preliminare anche se scende giù sotto la superficie, sotto la sintassi incatramata, dove si agitano i sentimenti veri, scorretti, dove ci raccontiamo le persone con altre parole. Scende tra le cose infrattate nella carne, tra le cose corrotte, i lacerti e le devastazioni del tempo. Ma su questo livello a volte Angela tende a trasformarsi in un personaggio, che possiamo prevedere ed anticipare. Forse perché in qualche modo Franchini ha rinunciato a spingere quella ricerca: perché Angela era così? Lancia una domanda “se prova tanto rancore nei confronti del mondo è possibile che le sia stato fatto, da bambina, da ragazza, da adulta, qualcosa che non h mai avuto la forza di confessare?” Accarezza possibilità, allude ad una maggiore indulgenza culturale nei confronti delle donne di quella generazione, una pazzia che perdoniamo. “gli uomini appaiono sicuri di sé, convinti del mondo immobile e gerarchico che hanno creato o accettato, e noi li odiamo, ma le donne, molte di queste donne, sono pazze e noi non ce ne accorgiamo”. Ma quelle donne sono state davvero solo delle pazze furiose?

In un punto per me il più bello del romanzo, vediamo davvero Angela oltre i fuochi e le scintille a cui ci ha abituato. Quando il figlio la scopre morta sul letto e ne scopre un lembo, lembo di lenzuolo, lembo di pelle, un piccolo triangolo in cui si concentra tutto quello che si è sciupato. “carezzando il poco di volto che affiora tra i tessuti”. Lì quando la linea di fumo si allunga e il fuoco si è spento, il frastuono e il ronzio si placano. E ci rendiamo conto che in fondo solo l’odio si è bruciato. Di cosa si è nutrita la rabbia di Angela, oltre alla sua personale ed intima biografia, oltre a quei tratti comuni che legano Angela alle sue radici meridionali? Franchini quasi lombrosianamente riconduce quella deformità di Angela, quel suo ghigno che deride tutto e tutti, tutte le donne stupide e zoccole, ad un inguaribile senso di inferiorità di tutto il Sud. “Io lo so che da qui nasce il male di Angela”. Senso di inadeguatezza da cui Franchini è tentato ma da cui si è anche elegantemente emancipato.

Forse, e qui ritorno a quelle donne e a quella spina di cui vi parlavo all’inizio, la mostruosità di Angela si è alimentata dello stesso cibo di Rusinè, di ogni gesto sociale di sopraffazione, di tutti quei tentativi di “incatenarla”, che Rusinè subisce anche in casa, e che Angela rifiuta per principio, per esorcizzarla, ciecamente però, sprecandosi e arrendendosi comunque. La memoria ancestrale dell’appartenenza ad una cultura è stata particolarmente violenta per le donne. E sicuramente quel risentimento che Angela (o Franchini) porta al parossismo è una storia femminile molto più ampia. “L’asciuga da dove sono uscito io senza gratitudine e senza tenerezze, e che senza tenerezza ho ricambiato”, scrive Franchini. Sullo stesso tono, “cura è ricambiare”, scrive Ilaria Caffio in Bara di seta. Amore con amore; odio con odio. Ma c’è bisogno anche di immedesimazione, oltre alla vergogna, per provare davvero a capire quella deriva che è stata anche una forma di sopravvivenza.

Silvia Acierno