È ancora una volta il titolo del libro a suggerirmi come cominciare questa nuova recensione; il motivo è però decisamente diverso rispetto alle precedenti occasioni, e non ha niente a che vedere con suggestioni di vecchi film o disegni in copertina; il suggerimento per l’incipit arriva dall’aver letto l’edizione inglese del libro di Murakami che ha come titolo:

‘What I Talk About,
When I Talk About Running’


A tradurlo in italiano, più o meno letteralmente, fa così:

Di cosa parlo,
quando parlo di corsa


Questa traduzione ‘letterale’ si discosta parecchio dal titolo ufficiale, e stranamente sintetico, dell’edizione italiana:

L’arte di correre

In questa occasione, lingua italiana e lingua inglese, si sono scambiate i ruoli e così il titolo italiano si appropria di quella sintesi pragmatica e diretta tipicamente anglosassone, quella che in tre parole svela tutto, o quasi, mentre il titolo inglese sceglie di non risparmiare parole, anzi è capace di ripeterne di uguali in sole due righe, si dilunga all’italiana e lascia spazio all’immaginazione, generando curiosità e desiderio di leggere quali storie potrà mai suggerire una corsa.

A rileggere ancora quel titolo lungo inglese, adesso, una volta terminato il libro, l’impressione è come se Murakami volesse anticipare già molto di quanto si trova in questo suo breve romanzo autobiografico: ritmo, passo, distanze lunghe, ripetizione, allenamento, routine, cadute, ripartenze.

Provate a leggerlo velocemente quel titolo, alla massima velocità, alla velocità, che potete sostenere per uno scatto rapido di una decina di secondi: dicosaparloquandoparlodicorsa.

Ora leggetelo lentamente, con il giusto passo, alla velocità con cui avete corso o immaginate di correre una corsa più lunga di diverse decine di minuti, di una o più ore: di cosa parlo, quando parlo di corsa.
Nel primo caso si rischia di prendere fischi per fiaschi quando quel ‘dicorsa’ viene inteso erroneamente interpretato come fretta, impazienza e non come l’esercizio di correre.

Di fatto, il libro di Murakami ha poco a che fare con quella fretta impaziente che spesso si presenta nella vita quotidiana; parla invece di alcune delle tantissime maratone che l’autore ha corso, senza mai camminare, come tiene a sottolineare in molte occasioni, e fino alla fine; è una delle sue regole più importanti in gara, da sempre, e rispettare quella regola è fondamentale perché è sufficiente non rispettare la regola una prima volta, per creare quell’abitudine che porta a non rispettarla molte altre volte.

Tornando al titolo, è lo stesso Murakami a raccontare come questo sia stato ispirato dal titolo di un altro libro, What we talk about, when we talk about love dello scrittore americano Raymond Carver; proprio questa informazione, mi ha insinuato il dubbio e la curiosità di sapere come siano state rese e tradotte quelle righe specifiche nell’edizione italiana. Tra parentesi, il titolo dell’edizione italiana del libro di Carver è stato tradotto con un letterale: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore.
È difficile alle volte comprendere le scelte fatte dai traduttori, sempre in bilico tra una pura traduzione letterale e una traduzione facilmente comprensibile e digeribile nella nuova lingua.
Quello del traduttore è un lavoro in cui si cimenta anche Murakami, dall’inglese al giapponese; è un arte che ha imparato con il tempo, attraverso un processo fatto di tentativi ed errori; nelle occasioni in cui ne scrive, è chiara la passione e la volontà che dedica nel comprendere profondamente la/il collega e il suo scritto.

Ma cosa c’entra tutto questo con l’arte di correre?

C’entra perché, ad esempio, è solo grazie alla passione condivisa della corsa che Murakami riesce a strappare un appuntamento per un’intervista con lo scrittore John Irving di cui Murakami ha in carico la traduzione in giapponese di Libertà per gli orsi nell’edizione italiana; un’intervista memorabile, fatta al mattino presto, durante il quotidiano momento di jogging a Central Park.

Mentre leggevo le ultime pagine di questo romanzo autobiografico, mi è venuto spontaneo chiedermi perché mai nessuno ai tempi in cui ho frequentato le scuole superiori consigliasse la lettura di questo romanzo; in inglese, o in italiano, penso sia un libro che ancora oggi può fare bene leggere alle superiori, in un liceo classico, uno scientifico un linguistico, un istituto tecnico, etc.
È un libro che possono consigliare così tante/i docenti di materie diverse: italiano, matematica, inglese, storia, tecnologia e innovazione, etc..
Sarebbe un buon consiglio di lettura che potrebbe dare anche un/a prof. di educazione fisica; anzi, visto il tema, sarebbe proprio un consiglio perfetto.

Un meta racconto composto da tanti racconti diversi in cui si può rivivere la maratona originale dalla capitale greca Atene alla piccola cittadina di Maratona e scoprire che quel percorso originale è poco meno di una maratona ufficiale, perché gli manca circa un miglio.

È un libro che porta esempi su cosa significhi fallire, e ci ricorda come siano tre i motivi principali responsabili del fallimento in una gara:
La prima è l’allenamento insufficiente.
La seconda è l’allenamento insufficiente.
La terza è l’allenamento insufficiente.

È decisamente sottile il muro che separa una sana fiducia [nelle proprie capacità] da un orgoglio malsano’.
È un libro che ricorda come nonostante la preparazione perfetta e l’allenamento non solosufficiente, ma da manuale, seguito con metodo rigoroso, i risultati il giorno della gara possono comunque deluderci, non arrivare, non soddisfare le aspettative che ci eravamo dati, e risultare addirittura inferiori a quelli raggiunti in quella gara corsa in passato con una preparazione decisamente inferiore, che però in quell’occasione si è dimostrata più efficace (anche per il semplice il fatto – con cui è meglio fare pace quanto prima – di aver avuto semplicemente qualche annetto di meno sulle spalle).
È un libro che aiuta a comprendere le diverse sfumature della competizione e come la corsa, dopo una certa età, non sia più necessariamente una questione di tempo, ma diventi più una questione spaziale e di apprezzamento del raggiungimento di un traguardo, lontano, difficile e impegnativo.

Murakami riesce a condividere e suggerire tutte queste riflessioni raccontando delle sue numerose corse – maratone, ultra-maratone, triathlon – della sua routine quotidiana, ogni settimana, sei giorni su sette, per un totale di centinaia di chilometri al mese, ovunque la sua vita di scrittore, docente, traduttore lo abbia catapultato in giro per il mondo che fosse Tokyo, Hokkaido e il Giappone o le nord americane Boston, New York, Boulder, Kauai (Hawaii) o Atene.

Un buon libro per chi corre, per chi nuota, per chi va in bici, per chi fa triathlon o qualsiasi altro sport, ma anche per chi non pratica alcuno sport, perché, al giorno d’oggi, succede che sia la vita a farci correre, a proporci un giorno sì e un giorno no le sue corse, impegnative, lunghe e stancanti.

Un libro che, con la scusa della corsa, ci racconta dell’arte dello scrivere e a modo suo dell’arte della vita, che, come scrive Murakami ‘generalmente è ingiusta, ma anche in quei momenti in cui si rivela tale, penso sia possibile trovare qualche forma di giustizia’.

Alessio Cuccu

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