Cercare di descrivere Elsa Morante e la sua opera secondo categorie note e terrene risulta molto difficile, in quanto lei per prima preferiva autodefinirsi uno scrittore, piuttosto che una scrittrice, perché considerava la vis letteraria qualcosa che sapeva trascendere il mero dato biologico o le consuete etichette sociali.
A partire dalla pubblicazione del suo primo romanzo, Menzogna e sortilegio (1948), l’autrice dimostra di non essere interessata ad assecondare il gusto letterario del tempo, e in quel caso specifico a fare propria la scrittura neorealista (negli anni in cui il Neorealismo in Italia era letteralmente esploso). Basti pensare che Menzogna e sortilegio fu da lei concepito come il romanzo dei romanzi, all’interno del quale potessero dialogare fra loro generi letterari diversi (romanzo d’appendice, romanzo verista, romanzo picaresco ed epico-cavalleresco): una sorta di reazione al presunto tramonto del genere romanzesco. Per usare le parole di Cesare Garboli (critico letterario e grande amico di Elsa) potremmo dire che Morante era «fuori da ogni tracciato, estranea a qualsiasi tradizione consacrata nel Novecento».
Le sue prime prove letterarie sono in realtà legate al mondo della narrativa per l’infanzia (si pensi alla raccolta di racconti Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina, oppure a racconti e articoli pubblicati tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta su riviste e periodici quali I Diritti della scuola o Il Corriere dei Piccoli), ed è forse grazie a questo apprendistato narrativo che Morante conserva a lungo il fascino e la predilezione per tutto ciò che è infantile, immediato, semplice. È possibile scorgere all’interno della narrativa morantiana un motivo ricorrente, o meglio un mito ricorrente, quello dell’Eden perduto: accedere alla conoscenza e scoprire di possedere una coscienza significa per l’autrice perdere la felicità autentica e primitiva dell’infanzia, e dunque condannare l’individuo alla storicità e alla paura della morte. Pertanto, gli unici che ancora riescono a esperire quella primordiale felicità edenica sono i bambini, gli umili, i popolani ignoranti, gli ultimi, ma anche gli animali in quanto inconsapevoli dello scorrere del tempo e della caducità della vita.
Il romanzo più rappresentativo di questo fil rouge morantiano è senza dubbio L’isola di Arturo, pubblicato nel 1957 presso Einaudi e vincitore del prestigioso Premio Strega nel medesimo anno. L’opera si presenta come un romanzo di formazione, narrato in prima persona dal protagonista Arturo Gerace che a posteriori rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza sull’isola di Procida sino al doloroso passaggio all’età adulta. Per Arturo quest’isola antica, di origine vulcanica, selvatica e carezzevole come le ginestre che ne ricoprono le colline in primavera, non è altro che metafora vivente dell’isola della fanciullezza, un periodo della vita spensierato, in cui realtà e fantasia si mescolano insieme per dar vita a un mondo luminoso ed eroico, segnato dall’allegrezza inconsapevole tipica dell’età fanciullesca. Ma l’arrivo della giovane matrigna Nunziata a Procida dà inizio al cursus di esperienze iniziatiche che conducono Arturo all’età adulta e contribuisce, insieme alla scoperta dell’omosessualità del padre, a spingerlo violentemente fuori dall’isola della fanciullezza. Lasciata Procida e raggiunta la terraferma, Arturo prende consapevolezza del fatto che la tanto agognata età matura non è altro che una fonte di paura e dolore: «fuori del limbo non v’è eliso», come recita l’esergo a inizio romanzo.
Anche ne Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi, un’opera in versi pubblicata per Einaudi nel 1968, è possibile ritrovare il leitmotiv dell’Eden perduto, declinato però secondo due nuove prospettive: da un lato Morante immagina sia possibile approdare a un paradiso artificiale facendo uso di droga, dall’altro individua una precisa e ristretta categoria di persone che involontariamente è ancora in grado di cogliere la Realtà profonda delle cose, di essere felice. Ecco che ne La commedia chimica (seconda parte della raccolta), la voce narrante tenta di intraprendere un viaggio ultraterreno per raggiungere il giovane amato da poco scomparso servendosi di sostanze stupefacenti: queste permettono all’individuo la sospensione della coscienza razionale, la lacerazione del velo di Maya, così da poter accedere più facilmente agli strati più profondi dell’anima e temporaneamente sentirsi parte della perfezione edenica originaria.
Invece, nella terza parte dell’opera, intitolata Canzoni popolari, la Canzone degli F.P. e degli I.M., viene tematizzata l’opposizione tra una maggioranza di Infelici Molti, incapace di cogliere il senso profondo della realtà, e una minoranza di Felici Pochi – persone umili, solitamente marginalizzate, sia poveri che ricchi, sapienti e analfabeti, «semi originari del Cosmo» – che riesce ancora a fare esperienza della felicità edenica persa aderendo in maniera irrazionale alla realtà, senza l’ausilio di intelletto e conoscenza, e la cui infelicità risulterà sempre allegra se paragonata alla felicità degli I.M.: «Rassegnatevi / o Infelici Molti, perché tanto è inutile. / Non c’è niente da fare / nien-te- da- fa-re! / La vostra felicità è triste da asfissiare / e invece l’infelicità / dei Felici Pochi / evviva / quanto respira allegra!». Questi sono i ragazzini a cui è affidato il compito di salvare il mondo, gli unici ancora in grado di conservare il «senso della bellezza», secondo un’interpretazione di Giulio Ferroni.
Con Aracoeli (1982) le riflessioni ricorrenti fino a qui indagate vengono portate alle estreme conseguenze. In quest’ultimo romanzo, considerato il testamento letterario di Elsa Morante, la tragica storia del protagonista rispecchia il percorso di progressivo allontanamento dall’Eden della fanciullezza che ciascun uomo è destinato a intraprendere nel corso della sua vita. Manuele – impiegato di una casa editrice, dipendente dalle droghe e socialmente isolato – si mette in viaggio per raggiungere El Almendral, il paese d’origine della madre Aracoeli, e nel corso del viaggio rievoca mentalmente con drammatica nostalgia la sua infanzia, trascorsa insieme alla madre a Roma nel quartiere di Monte Sacro, simbolo di una felicità precosciente, appunto edenica (si pensi alla collocazione dantesca dell’Eden sulla cima del monte Purgatorio), di cui non ha più fatto esperienza dopo l’ingresso nell’età adulta. Nei ricordi di Manuele la madre Aracoeli, una donna andalusa di umili origini, sembra perdere il suo spirito materno semplice, naturale e accogliente a causa del processo di civilizzazione e acculturazione a cui viene sottoposta dai parenti del compagno Eugenio, un ufficiale di marina di origini piemontesi. Il tentativo di imborghesirla e la perdita prematura della secondogenita porteranno Aracoeli a impazzire a tal punto da fuggire di casa e a prostituirsi in un bordello. Questo violento abbandono e la gelosia per la sorellina fanno sì che Manuele si senta rifiutato dalla madre, e indegno di lei per la sua bruttezza, di cui si convince non appena scopre di essere miope e dall’ottico indossa per la prima volta gli occhiali: «“Non gli stanno bene”, la udii protestare, rivolta all’impiegato […]. Nella sua protesta, impigliata fra la timidezza e la passione, fiatava un’autentica, furente ferocia; e qua, d’un tratto, una percezione strana mi avvertì che non l’occhialaio soltanto era oggetto della sua rabbia; ma anch’io!».
La reazione di Aracoeli preannuncia la fine del rapporto simbiotico con il figlio, che sarà dunque condannato a soffrire il distacco per tutta la vita. Pertanto, il viaggio che Manuele intraprende in età adulta ha come obiettivo quello di ritrovare in Andalusia il paradiso perduto della sua infanzia, cercando di ristabilire un contatto con l’anima della madre defunta e con la sua terra d’origine. Ma una volta giunto a El Almendral non troverà nient’ altro che una distesa desolata di pietre e la certezza della solitudine e della caducità della vita adulta.
Cecilia Urietti
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