Nel 1965, a Palermo si svolse il convegno sul romanzo sperimentale, a cui presero parte molti esponenti del Gruppo 63, intellettuali e letterati (tra cui ricordiamo Sanguineti, Balestrini, Arbasino, Barilli, Guglielmi, Eco) che aspiravano a un nuovo modo di fare letteratura, volto alla decostruzione dell’idea di narrazione come mero susseguirsi di eventi. Manganelli, che aveva esordito l’anno precedente con l’oscuro volumetto intitolato Hilarotragoedia, pur non potendo presenziare al dibatto, rilascia comunque una dichiarazione relativa alla condizione del romanzo di trama: «io provo uno scarso interesse per il romanzo in genere – inteso come protratta narrazione di eventi o situazioni verosimili – e talora un sentimento più prossimo alla ripugnanza che al semplice fastidio».

Così, mentre il discorso del gruppo 63 si muove verso una nuova forma di narrazione che si presenti non come susseguirsi logico di eventi, ma in quanto «descrittivismo “epifanizzato”», mantenendo intatta la categoria di “romanzo”, Manganelli sembra invece porsi come estremista nel campo d’azione della neoavanguardia. Il convegno di Palermo ha come obiettivo proprio quello di porre il problema del romanzo e della teorizzazione del nuovo romanzo, e così, quando Giuliani cerca di inserire l’Hilarotragoedia nel dibattito, Sanguineti lo rimprovera: «Giuliani fa questo, di farci uscire radicalmente fuori del genere; e infatti egli carica di responsabilità un caso come quello di Manganelli, che sarà certo ragguardevole sotto infiniti aspetti, ma che non appartiene, non dico al genere romanzo sperimentale, ma neppure al genere romanzo».

L’Hilarotragoedia è definita dall’autore stesso «un trattatello, un manualetto teorico-pratico» scritto al fine di colmare «una lacuna della recente manualistica pratica». Ovviamente lo statuto dell’opera si discosta dalle dichiarazioni dell’autore: l’Hilarotragoedia è un esperimento originale e innovativo non solamente dal punto di vista del linguaggio: è un testo omogeneo che risulta dalla commistione di parti saggistiche, quale il capitolo Balistica discenditiva (che paragona il movimento catabasico dell’uomo al movimento compiuto da un proiettile), e parti narrative, come può essere la Testimonianza di un giovane solitario. L’autore afferma nella quarta di copertina: «il libro si divide appunto in due parti, che potremmo denominare Morfologia ed Esercizi»; e proprio l’incipit della Testimonianza riprende questa bipartizione: «Il documento che qui segue, e i successivi, sono da considerarsi esempi, o esercizi, o forse verifiche sperimentali del precedente testo teoretico».

Se l’Hilarotragoedia si apre come trattato, e viene presentata come tale, man mano che si procede nella lettura si può notare come sempre più numerosi siano gli inserti narrativi; e la vera novità dell’opera è proprio questa: le continue digressioni narrative che vengono inserite come postille alla parte saggistica. Si rivela quindi giusta l’intuizione di Giuliani di parlare dell’opera di Manganelli all’interno del dibattito sul romanzo sperimentale – e lo stesso Giuliani nota un’altra caratteristica interessante del trattatello, definendolo «opera che sfugge alla qualifica di “edificante” proprio perché finge esplicitamente di essere tale». In un’intervista per il ventennale del Gruppo 63 con Elisabetta Rasy, Manganelli dichiara che la neoavanguardia «è stata un’esperienza molto interessante perché introduceva elementi di disordine e di confusione in un momento della letteratura italiana estremamente prevedibile e ordinato», dove prevedibile e ordinata era «un’idea della letteratura […] moralistica e sentimentale».

Ed effettivamente confusione e disordine sono gli elementi alla base di un trattatello scritto da un pedagogo che non vuole insegnare nulla, da un autore che si scaglia contro «il peso di un’ideologia, quella del realismo, che voleva vedere nella letteratura uno specchio dei tempi e un’interpretazione del mondo», e che però nella quarta di copertina conclude la presentazione dell’opera scrivendo: «e se taluno troverà codesti documenti inconditi e affatto notarili, non dimentichi che il loro pregio è da ricercare nella minuziosa, accanita fedeltà al vero; e pertanto, essi vengono qui proposti come esempi di quel realismo, moralmente e socialmente significativo, di cui il raccoglitore vuol essere ossequioso seguace».

Per Manganelli, la letteratura costituisce uno spazio altro, svincolato dalla realtà e che in alcun modo può tentare di descriverla o di incontrarla – tant’è che, qualche anno dopo, alla richiesta di un contributo sulla città di Ascoli Piceno, risponderà con uno scritto che ne nega l’esistenza –: «La letteratura è, un libro è. Una frase è, tutto qui. È, per così dire, tautologica. La letteratura è senza dubbio una gigantesca tautologia. Non descrive neanche nulla, perché non c’è nulla da descrivere a parte lei stessa. E malgrado le apparenze, non ha nulla da comunicare. […] L’idea che un’opera letteraria comunichi, per me, è pura follia. Che cosa mai dovrebbe comunicare? Semmai crea uno spazio linguistico, nasce un conglomerato, una sorta di proliferazione verbale».

E, ritornando all’Hilarotragoedia, possiamo allora definire questo trattato come una sorta di «proliferazione verbale», un discorso che si regge su un continuo insorgere di frasi coordinanti che allungano ed esasperano i periodi, a cui si aggiunge l’uso di un linguaggio manieristico, che fa di esso il tentativo di creare uno spazio linguistico, un labirinto in cui perdersi – e soprattutto, in cui far perdere quel romanziere che tenta di interpretare il mondo per i suoi lettori «balbettando delle verità».

Enrico Bormida

Leggi la presentazione di ’900 italiano a cura di Enrico Bormida e Andrea Borio