All’inizio di questa storia c’è un paio di ballerine color prugna, riassume per noi lettori l’io narrante, colui che ci accompagnerà nel resoconto delle 36 ore del crollo di Philip – quarant’anni, agente immobiliare, una vita scandita da impegni e responsabilità come tutti -.
C’è l’appuntamento di lavoro che lo ha portato a aspettare invano un cliente in un caffè di Zurigo e lo sguardo distratto che vaga tra la folla per compensare la noia, poi il passo di una giovane donna – ai cui piedi sono le ballerine incriminate – che cattura l’attenzione del protagonista e cancella il mondo intorno, precipitando Philip in un inseguimento che, ci avverte il narratore, lo porterà alla rovina. Eppure della donna tampinata, in mezzo alla folla, in metro, fin sotto casa, il protagonista non ha nemmeno visto il volto.
Ciò che muove la sua caccia – e la nostra di lettori, appresso a lui, alle sue motivazioni – resta a lui stesso poco chiaro. L’inseguitore è un maniaco? Un pervertito, un folle?
Un incontro di lavoro, il figlio da andare a rilevare dalla bambinaia in serata, un aereo su cui salire il giorno dopo. Philip ha posti in cui essere, persone che lo aspettano e impegni cui attendere. Cosa inceppa l’ingranaggio che muove la sua vita? Cosa spezza il suo legame con il suo mondo?
Al narratore il difficile compito di mettere in fila gli eventi e cercare di trovare il bandolo della matassa, le ragioni che muovono una caccia apparentemente senza senso.
So tutto, e non comprendo nulla. La successione degli eventi mi è chiara. So come inizia la storia, conosco il giorno, e conosco il luogo: il chioschetto dei brezel davanti ai grandi magazzini di piazza Bellevue. So quando finisce, ossia dopo trentasei ore, nel primo mattino di giovedì tredici marzo, su un balcone da qualche parte in periferia. Anche gli avvenimenti tra quell’inizio e quella fine sono stati appurati […] tutto ciò è ormai chiaro come il sole. Le circostanze, però, le condizioni che hanno reso possibile quegli eventi restano celate. Quanto più mi riesce di precisare i dettagli, tanto più il mondo dove la storia si è svolta si fa spettrale. Si potrebbe pensare che mi capiti come a quel tipo che a furia di fissare gli alberi non vedeva più la foresta; solo che la foresta – su questo voglio insistere – è una pura ipotesi, un sistema astratto non riscontrabile nella realtà. La foresta si dissolve in singoli alberi proprio come il cielo si dissolve in singoli pianeti, stelle e meteore.
All’inizio, abbiamo detto, c’è un paio di ballerine color prugna. Pflaumenblau nell’originale tedesco, in cui il blu (il prugna fa parte dello spettro cromatico del blu in Germania, non del viola come per gli italiani) ricorda, solo con l’aggiunta di un tono più cupo, il colore del fiore di Novalis, simbolo del desiderio inappagabile e dell’anelito verso l’irraggiungibile, la “Ferne”, la distanza incolmabile, quindi, tanto cara alla Sehnsucht dell’immaginario tedesco fine settecetesco -. C’è l’allure di una donna, la luce divina nei capelli di lei, il richiamo del sublime, forse.
La ragazza era in piedi in una striscia di sole che penetrava tra i rami. In controluce i suoi capelli erano un incendio, la sua figura si stagliava scura in una corolla di raggi, una silhouette in una ghirlanda splendente, una composizione irresistibile, un dono per chiunque avesse gli occhi per vederlo.
E c’è il vento che le muove la gonna, disvelando tracce di un incantesimo che non ci sentiamo di chiamare amore: infatuazione, forse, o qualcosa di piú oscuro e sfuggente che ha a che fare con un sortilegio dal quale Philip è soggiogato. Un canto ammaliante cui è impossibile sottrarsi: vittima della potenza di questa visione Philip non può fare altro che lanciarsi all’inseguimento.
O forse non dobbiamo fermarci a questa interpretazione romantica. Forse possiamo raccogliere gli indizi che Lukas Bärfuss dissemina nel testo e tentare con una seconda chiave di lettura, una che ha a che fare proprio con la sfera di significati dell’inseguimento in sé, con l’inseguito e l’inseguitore, il “follower” che anela alla realtá rappresentata da colui che segue, dal valore che attribuisce ai momenti che crede di rubare alla vita di questo. E in questa epoca di condivisione di istanti di vita personali sui social media sono proprio i contatti – quantificati in followers appunto, in inseguitori di contenuti virtuali e felicità altrettanto inafferrabili del fiore blu – a far perdere sostanza alla soliditá del reale.
D’altronde anche nella mia città le condizioni avevano cominciato a mutare. Si trattava di un rivolgimento invisibile; esteriormente tutto appariva come prima, ma un dubbio si era insinuato nella coscienza delle persone. La fiducia era scomparsa, la fede nel domani e nelle sue possibilità, la convinzione di poter forgiare il proprio destino, di poter compiere il passo successivo sulla via del perfezionamento, tutto questo si era come incrinato. […] Il suo compagno era un telefono intelligente su cui Philip scriveva, leggeva e giocava, una macchina che solo pochi anni prima aveva intrapreso la sua marcia trionfale alla conquista del mondo. Il rapporto con quella macchina era poco chiaro.
Coloro che l’avevano inventata e sviluppata rivendicavano scopi filantropici, ma noi non ci fidavamo, li consideravamo farabutti, complici di un progetto finalizzato all’abolizione dell’essere umano. Ciononostante, in pochissimi rinunciavano alle macchine, anzi, le adoperavamo tutti con prodigalità ancora maggiore, aprendo loro spazi in ambiti di esistenza sempre nuovi. Lavorare senza quei dispositivi era ormai quasi inimmaginabile, e anche nel tempo libero, nelle questioni di salute e sempre più pure nell’amore affidavamo loro il timone, li seguivamo docili al guinzaglio pur sapendo quanto fosse improbabile che ci conducessero alla felicità.
Ma poiché avevamo perso la fiducia nella nostra libertà, nella capacità di sapere in cosa potesse consistere la nostra felicità, rimanevamo connessi a quelle macchine.
La realtà descritta da Bärfuss perde pezzi e così Philip stesso: le chiavi, il portafogli, una scarpa e, via via che le ore passano, mentre la batteria dell’orologio si esaurisce e il telefono si scarica, Philip arriva a perdere l’ultimo aggancio al suo mondo: la possibilitá di essere raggiunto da chi conta nella sua vita e da coloro che contano su di lui.
Privato della zavorra del reale le sue azioni si fanno via via più incomprensibili.
Il lettore si perde come Philip nell’intricato disegno di Bärfuss: da una parte l’esattezza della Zurigo topografica, la connotazione temporale precisa, legata a eventi rintracciabili nella memoria storica di noi tutti (la scomparsa del Boeing 777 delle Malaysia Airlines, l’occupazione della Crimea e il diffondersi del virus dell’influenza Aviaria), dall’altra un richiamo sottile e vischioso, a sussurrare parole di istigazione a qualcosa di buio nascosto in profondità nell’io maschile di Philip
la brezza le gonfiava la gonna di chiffon, modellando qua e là le sue rotondità, le schiacciava la camicia contro il busto, la gonna tra le gambe. Pareva quasi che il vento volesse crearla dal nulla, facendo sorgere dall’aria le sue forme. I gabbiani garrivano in volo, e Philip sentiva l’odore del lago che in quei giorni si destava dalla stagnazione invernale. Un aroma d’alghe e di limo fluttuava sulla riva. Le acque cominciavano a rimestarsi, il fondale voleva salire alla luce e ciò che galleggiava in superficie doveva affondare nelle profondità. E a quell’odore s’intrecciava un’altra scia, dolce, pesante, umana: Philip la seguì.
Queste acque che si rimestano, questo fondale scuro e limaccioso che vuole salire alla luce e questo richiamo a odori acri di umano e di alghe (e poche cose hanno un richiamo tanto spiccato alla sessualità quanto l’odore delle alghe al sole) è un richiamo animalesco ben più potente del fascino della donna, che da soggetto ammaliante diviene oggetto rimodellato passivamente dalle azioni altrui (rivelatori questi verbi: il vento schiacciava la camicia contro il busto, modellava, quasi a crearla, la sua forma).
A enfatizzare questa ambivalenza di lettura, il titolo: Hagard.
Hagard è un aggettivo che sta per stregato, ammaliato, ma anche per smarrito.
E al contempo Hagard è anche il nome con cui si designano in falconeria certi falchi maschi, addestrati dall’uomo ma presi in età già adulta, quando le loro esperienze di caccia sono state affinate dalla vita selvatica e non blandite della cattività. Cacciatori letali, ma non leali. Inaddomesticabili, si direbbe.
Rotti i lacci di appartenenza alla propria vita e perso il contatto con ciò che lo definisce socialmente (documenti, proprietà, reperibilità), in Philip emerge un lato ancestrale del mascolino, di fuga dal ruolo ricoperto e dalle proprie responsabilità. E con questo il desiderio primigenio di prevaricazione e di possesso.
Qualunque incontro presuppone un iniziale oltrepassamento della linea che la decenza traccia attorno a ogni individuo. […] Nessuna storia, tanto più nessuna storia d’amore, può fare a meno della trasgressione. Nessuna conquista ha successo senza presunzione. Se Philip avesse voluto rivolgere la parola a quella donna, il che non è affatto sicuro, avrebbe comunque dovuto compiere un’azione come minimo sospetta.
Sicuro è invece il modo in cui si scostò dal pilastro a cui era appoggiato: d’un tratto e senza un attimo di esitazione, come i bambini piccoli quando di colpo lasciano cadere una bambola. Nulla in loro, non un muscolo, non una minima tensione, tradisce il fatto che di lì a un istante apriranno la mano; non c’è alcuna anticipazione, alcun pensiero prima del movimento… In quella stessa maniera Philip si staccò e si lasciò trascinare dietro a quelle ballerine, dietro a quei piedi, nella fiumana umana che si riversava in direzione dell’opera.
Così alla malìa si contrappone l’istinto predatorio, portando a compimento il duplice significato della parola Hagard. Un atto trasgressivo di autodeterminazione e, da parte di Bärfuss, quel rimestare nel torbido della natura umana – scevro delle mediazioni rassicuranti e consolatorie alle quali ci ha abituato la letteratura contemporanea – che gli è valso il Premio Georg Büchner 2019, il più prestigioso premio letterario tedesco. Un libro importante, portato in Italia con l’ottima traduzione di Marco Federici Solari (da tedesca ho apprezzato molto l’attenzione a preservare la tonalità emotiva del testo) a conferma dello splendido lavoro di ricerca cui L’Orma editore si dedica da anni.
Anja Widmann
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