«Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: – Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!». Con questa battuta, Pirandello riassume la tragedia di un uomo colpito dall’epitelioma e condannato a morire: l’uomo dal fiore in bocca. Beffato dalla sorte, il protagonista della vicenda si presenta come sull’orlo della vita, in una continua ricerca di bellezza e di conforto, non sazio di tutto ciò che può ancora cogliere da essa.

L’uomo dal fiore in bocca, opera teatrale in un solo atto, è scritta da Luigi Pirandello nel 1923, sebbene sia tratta da una novella precedente, caffè notturno. Non era raro, infatti, che l’autore riscrivesse delle novelle con un forte impianto dialogico per renderle più adatte a essere recitate. È rappresentata per la prima volta a Roma il 21 febbraio 1923, al Teatro degli Indipendenti diretto da Anton Giulio Bragaglia, e successivamente pubblicata nel 1926 dall’editore Benporad Di Firenze.

Il lungo atto si presenta come un dialogo fra l’uomo che sa di dover morire e un ignaro avventore. I due, seduti al tavolino di un bar, innescano una conversazione banale. L’avventore ha perso il treno e si trova a passare la notte in un localino, mentre l’uomo dal fiore in bocca passa le giornate a girovagare per le strade e a captare tutto ciò che può ancora ricevere dalla vita. L’uomo cerca il confronto e ritrova il senno solo in brevi discussioni con sconosciuti. L’incomunicabilità della sua condizione lo spinge a una solitudine ermetica: è per questo motivo che il condannato a morte si aprirà con il passante e gli svelerà il suo segreto. Parla perché sa di non poter essere compreso.

Pirandello fa intuire, passo a passo, sottilmente, che il personaggio sta vivendo una situazione drammatica: nulla è mai esplicitato. La tensione drammatica non riguarda tanto l’esito del dialogo, quanto il suo svolgimento. E l’esistenza dei due individui, nel testo, si rivela come paradossale e opposta.

L’uomo dal fiore in bocca è mosso da un enigmatico conflitto interiore: da un lato egli si rivela scettico, passa le giornate a convincersi della profonda inutilità dell’esistenza. Si vuole distaccare senza alcun rimpianto dalla vanità della vita. Dall’altra parte, trascorre il tempo ad osservare il mondo attorno a lui con occhi famelici, instancabili. È consapevole di vivere un dilemma, e immerso nella dimensione dell’immaginazione egli si attacca alla vita «come un rampicante alle inferiate di un cancello». Nel dialogo il protagonista rivela che è l’immaginazione la fiamma delle sue giornate:

«Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla. (Con cupa rabbia:) E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempi continui, a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di sé stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni…».

Il timido avventore, al contrario, non turbato dall’incombenza della morte, è immerso in una realtà artificiale, fatta di banalità, tipica della vita borghese. Subisce la normalità di chi è preso nel giro usuale della vita, intrappolato nei suoi piccoli impegni quotidiani: passa il tempo preoccupandosi di problemi e di faccende irrilevanti.

Pirandello, attraverso questo racconto, fa una riflessione molto pessimista sulle possibilità umane: il male inesorabile che affligge l’uomo dal fiore in bocca sembra l’unico impulso rivoluzionario capace di spingere l’individuo a vivere in modo autentico. L’opera rappresenta, secondo Giuseppe Giacalone, la simpatia che Pirandello nutre per i personaggi poco attaccati alla vita, che sanno rinunciare ad essa, convinti logicamente di non perdere nulla, ma disperati nel cuore di perdere tutto. L’epitelioma spinge l’uomo a vivere un disperato delirio. Il personaggio si protende con l’immaginazione verso il suo interlocutore ed è spinto a indagare i particolari della sua vita insignificante, annullando di fatto razionalmente la propria esistenza.

«Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…».

In una salda unità aristotelica, il soliloquio del condannato analizza lucidamente le sue ultime sensazioni, evoca brandelli di una quotidianità per lui tanto banale quanto preziosa. L’uomo dal fiore in bocca tenta di descrivere con minuzioso particolare un garzone che incarta i regali, le sale d’aspetto di dottori, gli odori e le sensazioni che suscitano le vetrine patinate. Egli rivela che ormai questo è l’unico punto di contatto con la vita che gli rimane. Le sue parole sono dense di sinestesie: il tatto, l’olfatto, la vista sul mondo sono inebriate da tutti gli stimoli che riceve. Ogni immagine captata diventa il simbolo di una vita che scivola. Ed essa scorre via, anche e soprattutto per coloro che non sono in grado di assaporare questa densità. Ogni occasione, anche la più piccola e insignificante, diventa quindi l’esperienza in cui si cattura l’esistenza, nella sua banalità, ma anche nella sua grande bellezza: «Ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche… Come le mangia lei? con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà; si premono con due dita, per lungo… come due labbra socchiuse… Ah, che delizia!».

In questa drammatica contraddizione, fra rimpianto e vanità dell’esistenza, la poesia di Pirandello rivela la misura umana del suo personaggio. L’autore desidera, come in tutta la sua poetica, mettere in discussione radicalmente ciò che si considera la normalità. Inoltre, si domanda: «la vita allora che si aggira piccola, solita tra queste apparenze, ci sembra quasi che non sia davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? come portarle rispetto?». Pirandello vuole comunicare il paradosso per cui il quotidiano acquisisce agli occhi di chi è vicino alla morte ben altra valenza, mettendo in scena una rielaborazione novecentesca del Carpe Diem Oraziano.

Fernando Pessoa scriveva una bellissima poesia, che potrebbe essere d’ispirazione per l’uomo dal fiore in bocca, ma soprattutto per ognuno di noi, avventori, casuali ascoltatori delle sue parole: «Benedetti siano gli istanti, i millimetri e le ombre delle piccole cose».

Cecilia Nebosi