“We are all born /so beautiful/ the great tragedy is /to be convinced we are not”
(Rupi Kaur, Milk and honey)

“Comment le dire? Que tout de suite nous sommes femme. Que nous n’avons pas à être produite telle par eux, nommée telle par eux, sacrée et profanée telle par eux. »
(L. Irigaray, Ce sexe qui n’en est pas un)

Si può essere state adolescenti di provincia, eppure essere riuscite a sentire che le altre, quelle che pensavano che il liceo appartenesse a loro più che a te che venivi non dalla provincia come la Ciabatti, che da Orbetello atterra ai Parioli, ma peggio ancora dal paese, anche loro avevano delle debolezze. Si può essere state adolescenti senza aver fantasticato di essere al posto di Emanuela Orlandi, come fa la narratrice di Sembrava Bellezza, per carità, eppure avere giocato con la fantasia di scappare ovviamente con la speranza di essere poi ritrovata, come quando ti nascondevi sul terrazzo e aspettavi. Si può essere state adolescenti negli anni Ottanta, Novanta, magari limitandoci a guardare Non è la Rai, magari anche con una punta di snobismo, sognando di essere carina come quelle lì, con quei vestitini elasticizzati o famosa, ma poi spegnere la televisione, tornare nella propria stanza, se ce l’avevi e tornare in te, ai tuoi impegni, alle amicizie, alla musica e soprattutto ai tuoi amori. Si può essere state adolescenti negli anni Ottanta, Novanta senza aver fantasticato di sterminare con una bomba il liceo e i tuoi compagni (altro sogno ai limiti della provocazione dell’adolescente Ciabatti), eppure esserti sentita sul punto di esplodere tu o aver sognato di vendicarti di questa compagna che sa usare le parole malvagie, addirittura perfide, che ti ha appena detto che sei una nullità in matematica o di quell’altra solo perché è più carina di te, al massimo gli hai tirato la coda di cavallo, o le hai fatto lo sgambetto, magari sei pure riuscita a darle uno schiaffo. Soprattutto possiamo fare uno sforzo per tornare indietro, lì in quella stanzetta in cui i tuoi genitori, soprattutto tua madre, ti confinavano mentre tu avresti voluto stare fuori ancora tra quelle braccia, ancora in quel bacio, tornare in quella stanzetta in cui piangevi ascoltando Luca Carboni, in quella stanzetta che non ti piaceva perché c’era qualcosa o molte cose di te che non ti piacevano, per ritrovare tutte quelle emozioni, senza tacere niente, nemmeno l’egoismo, la cattiveria, o la crudeltà, come riesce a fare Teresa Ciabatti, ma senza ridicolizzarci, per carità. Perché così alla finzione insopportabile di attribuire a quella voce immatura la nostra maturità di oggi, finiremo col sostituirne un’altra altrettanto insopportabile: attribuire a quell’adolescente solo certi sentimenti scomodi che oggi non volgiamo per noi. E lasciare tra le mani del lettore delle pagine che non vogliono piacere o piuttosto vogliono continuare a piacere ma dispiacendo, provocando, mischiando le carte fino al punto di dire tutto e il contrario di tutto.

Potrei continuare così ancora e poi ancora per dire che si può essere state adolescenti più o meno tutte complessate, tutte arrabbiate, tutte storte ma senza che i sentimenti negativi abbiano assunto le dimensioni eccessive, al limite del grottesco che Ciabatti ha deciso di dare a questa se stessa di carta e parole, e alle sue amiche, Federica e Livia. Eppure tutte queste critiche (in fondo cosa importa di quello che vedo io?) o tutto questo disaccordo non tolgono nulla, assolutamente nulla all’incredibile romanzo di Teresa Ciabatti. Lei voleva portarmi qui. Eccomi in questo strano posto spietato dove tutto è possibile. Voleva portarmi qui a dire queste cose anche un po’ velenose e forse trascurabili che sono proprio le ragioni per cui questo suo romanzo è grande e importante. La scrittura si addensa e si scioglie, vortica e si posa, arriva e passa via. Come quel susseguirsi di stagioni e tempi che Ciabatti sa condensare in poche righe che scavalcano. È come se solo in queste condizioni di fastidio, in questa zona di bassezze, quasi confusi e magari indignati dai capricci di una narrazione che sembra sempre sul punto di ritrattarsi, possiamo sentire la forza di una narratrice spregiudicatamente autoironica, e di questo narrare sovversivo che si nutre e distrugge ogni convenzione per autodistruggersi.

Qui nel cuore del romanzo, Ciabatti ci mostra i volti della bellezza, di quello che sembrava bellezza ma che ovviamente non era. Le tappe di una specie di calvario che come scrive Ciabatti non era nulla, non è nulla, occhei, come direbbe lei. Bellezza e bruttezza, nei suoi vari gradi di sopportazione o convivenza, fino ai disturbi alimentari, di cui Ciabatti ci dà giusto un assaggio crudo e profondo. La bellezza che ti spoglia, dunque, fino all’inconsistenza. Bellezza e armonia, nei suoi vari gradi di sentirsi una creatura a metà, da né carne né pesce (espressione che ho sempre amato e applicato a me stessa), a tutto maledettamente pesce o tutto maledettamente carne, fino alla chirurgia estetica. La bellezza che ti riempie il corpo di protesi. Bellezza e “verginità, verginità” (come scrive Teresa Ciabatti), nella sua carrellata di storie infinite legate all’espressione del piacere, dalla santa alla puttana (forse così è più chiaro), dal consenso alla violazione. La bellezza che ancora una volta, ti impone un’integrità. Bellezza e menopausa nei suoi diversi strati, dalla resa alla finzione. La bellezza che di nuovo ti spoglia, disfacendosi in perdite e quant’altro e ti smaschera (hai già cinquant’anni). Bellezza e maternità, nelle sue molteplici forme dalla maternità esemplare a quella degenerata (quella che mette in scena Ciabatti), dalla normalità all’anormalità, dalla gravidanza all’aborto, con quel sentimento di colpa (categoria per eccellenza dell’ordine giuridico patriarcale) che l’accompagna sempre e comunque. Qui la bellezza ti riempie di nuovo il corpo fecondo, salvo defraudartelo se non lo riempi. Bellezza e amore, in tutte le sue possibilità, dal corteggiamento alla suggestione, passando per passioni e delusioni. Qui di nuovo il corpo si gonfia e si sgonfia in un palpito senza fine. Bellezza e intelligenza, dalla bella sciocchina, fino alla menomazione, e regressione di Livia, una delle protagoniste di questa storia. La bellezza che ti svuota perché se sei bella non puoi essere intelligente e se sei intelligente sei sicuramente una brutta secchiona. Bellezza e morte. Perché secondo quei parametri di bellezza “non siamo altro che mucchi di ossa”. Ci siamo, tutta la fisiologia femminile dalla a alla zeta, pieni e vuoti, dal bianco al rosso. E assiema alla bellezza deflagra anche il romanzo, le parole e le emozioni si inceneriscono e la narratrice perde lucidità. Non c’è logica, non ci ragiono, ciò che dico è stupido.

Nei suoi romanzi, Teresa Ciabatti è inseguita da un’ossessione a cui cerca di dare diverse forme, o meglio deformazioni fino al limite della menzogna. In Matrigna è la follia di una madre. In La più amata è la degenerazione di un padre. Qui finalmente, proprio quando non cerca di nominarla, appare piuttosto come la sensazione di un corpo sopra il suo, che pesa, che fruga, che toglie il respiro, che le tappa la bocca, impedendole di chiamare aiuto. Nel romanzo La più amata, quel corpo era quello del padre, un padre doppio, abominevole nella sua doppiezza, che forse ha abusato della figlia. Questo ricordo autobiografico sottilmente torna qui in Sembrava Bellezza, dove Ciabatti mette in scena una nuova autobiografia, o sempre la stessa ma da un punto di vista appena un po’ diverso, ovviamente falsa o vera a metà quanto la prima (ma che importa?) e viene quasi ritrattato o reso ancora più ambiguo in una riscrittura continua e reiterazione della scena madre. “Tu, scrittrice, meriti che ti venga restituita la violenza che metti scrivendo, con la quale abusi delle persone che ami muovendole a piacimento. Sbugiardandole, svergognandole”. Questa cosa che la opprimeva e che la opprime è forse proprio la bellezza, quella che sembra bellezza, l’idea di bellezza che è stata degradata a una specie di colpa da espiare. Quando c’è un colpevole ma anche quando non c’è, ma ci deve essere comunque.

Quando Ciabatti ci dice “tutte voi in questo negozio a tre piani, seguiteci”, quando questa sua adolescenza aspira in fondo ad essere l’adolescenza di tutte noi, forse è anche così. Tante non sono state ragazze che avrebbero voluto essere ingoiate dalla botola o non abbiamo invidiato Emanuela Orlandi o qualsiasi altra sciocchezza. Con la mia amica grassa o brutta (chiamatela come volete) non ci siamo mai stese su nessun tappeto dai colori pastello in nessuna cameretta dai colori pastello. Ad unirci c’era uno “scambio” di pantaloni splendidamente cuciti dalla madre, di libri sottili ed enormi, i suoi, e di parole di incoraggiamento e di disperazione, soprattutto le sue. Gli ero legata eppure dedicavo molto più tempo ed energie ad altre amiche, quelle con le camerette e i guardaroba, quelle in cui proiettavo la parte più grande di me: quella che aveva a che fare con la bellezza e tutti i suoi annessi e connessi. E allora scendo anch’io in quel posto scomodo in cui Ciabatti ci vuole portare, dove facciamo i conti con i sentimenti che dobbiamo per forza abbellire, dove il narratore ha bisogno di disfarsi di se stesso, di quel sé stesso buono o addomesticato. Lì in una specie di ricettacolo, dopo aver masticato quei sentimenti, vediamo Livia, l’amica, la più bella del liceo dei Parioli, quella che ha fatto innamorare generazioni di maschi (frase vuota a cui giustamente non corrisponde niente nella narrazione), che continua a saltellare a cinquant’anni come una bellissima vergine preraffaellita la cui sessualità sfugge alla sorveglianza e all’autosorveglianza, incarnando l’immaginario femminile refoulé, l’amputazione culturale della donna. Livia che nonostante sia bella come a sedici anni in fondo non lo è più, nemmeno lei. Perché la bellezza quella canonizzata è crudele. E il romanzo di Ciabatti allunga le braccia per cingere tutte le creature addormentate, per prenderle in quella caduta libera trascinando con sé tutti gli aggettivi cari alla bellezza. E ci rendiamo conto che in quel posto, in quella “giungla” non ci hanno protetto, spiegato e soprattutto non ci siamo amate. E allora, cancellando ogni distanza posso ripetere assieme a Ciabatti: “Rappresentanti Avon, attrici, modelle, salite sulle auto, parlate con gli sconosciuti, volteggiate, piroettate. Tornate”. Che vuol dire almeno per me, rivoglio allora non adesso un’adolescenza libera dall’idea di bellezza, rivoglio il mio corpo di donna anche ora alla mia età (sia quella che sia).

Silvia Acierno

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