Mi rendo conto che parlare di libri in Italia è un po’ come parlare di soia, tofu e seitan alla Sagra della Porchetta di Ariccia. Tuttavia, a quello zoccolo duro di lettori purosangue che ancora percorre resiliente le praterie e i marciapiedi della Penisola in cerca di librerie eroiche e semiclandestine, dedico questa mia escursione estemporanea. Inoltre, particolare non certo di secondo piano, esplorare gli orizzonti dei libri mi aiuterà a schivare per un po’ i panorami attuali, fatti di varianti di cui faremmo volentieri a meno e di varianti auspicate, quelle politiche, che si spera non siano solo pura facciata, come i monumenti sulla carta delle banconote. Ben venga allora l’amore per i libri, per la scrittura, per la letteratura. Una forma di follia anch’esso, non c’è dubbio, lo hanno sancito fior di filosofi e psicologi. Ma una sana follia forse. O almeno differente, “arricchente”. Non sul piano finanziario, certo, ma nell’ambito di qualcosa che, benché impalpabile, non è di poco conto. Così, perlomeno, ci ostiniamo a considerarlo.

Comincerei con una considerazione di Montaigne che assume quasi la funzione di un consiglio (non per gli acquisti ma per la sussistenza): “Non viaggio senza libri né in pace né in guerra. È il miglior viatico che abbia trovato per questo viaggio umano”. Qualcuno troverà la frase un po’ eccessiva, forse. Leggendola bene però se ne coglie la carica eversiva, nella sua apparente quiete diaristica. E ciò che è eversivo, si sa, è eccessivo per scelta e per forza di cose. Rafforzo il concetto facendo ricorso ad un libro che è quasi sempre presente nelle mie noterelle di lettura, Il mestiere di vivere. La letteratura è una difesa contro le offese della vita”, sostiene Pavese. Frase che, come tutte quelle ispirate, e vissute nel profondo, non necessita commenti.

Si può dire tutto e il contrario di tutti sui libri. Come sulla vita. Sulle due entità contrapposte, o complementari, la letteratura e la realtà, si sono spesi fiumi di parole. Mallarmé afferma che “In fondo il mondo è fatto per finire in un bel libro”. Ne Il nome della rosa, Eco, invece, propone questa presa di coscienza: “Sino ad allora avevo pensato che ogni libro parlasse delle cose, umane o divine, che stanno fuori dai libri. Ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come se si parlassero fra loro”. Sono vere entrambe le affermazioni, forse, o nessuna delle due. I libri sono talmente numerosi, misteriosi, inafferrabili, da poter comprendere il vero e il suo contrario.

Uno scrittore statunitense, L.P. Smith, esprime un punto di vista molto netto in proposito: “La gente dice che la vita è la cosa genuina. Io preferisco leggere”. Estremo anche questo, forse. Ma sono certo che Smith non è il solo a pensarla così. Per la par condicio, sempre di moda, gli affiancherei a mo’ di contrasto, o almeno di controcanto, un certo Shakespeare. Quando Polonio chiede ad Amleto: “Cosa state leggendo, mio signore?”. Il Principe di Danimarca, con un ghigno sardonico facilmente immaginabile, gli risponde: “Parole, parole, parole”. E vi assicuro che non si tratta della canzone di Mina, né, del resto, di una frase buttata lì. È un’approfondita considerazione di natura filosofico-letteraria. Un atto di amore lucido, amaro. Un altro autore inglese, Charles Lamb, ci conduce verso un cammino parallelo, che, ben lungi dal risolvere il contenzioso, lo rende più complesso, ma anche più umanamente sentito: “Mi diletta perdermi nella mente altrui. Quando non vado a passeggio, leggo. Sono incapace di stare seduto a pensare. I libri pensano per me”. Un’altra testimonianza che non risolve, ma, appunto, aggiunge e rivela.

 Dopo tutta questa filosofia, un po’ di lievità non guasta. Oscar Wilde, un po’ recitando la parte di se stesso, un po’, magari, con sincerità, era solito dichiarare: “Non viaggio mai senza il mio diario. Bisogna avere sempre qualcosa di strabiliante da leggere in treno”. Sempre per rimanere nel filone umoristico, passo stavolta ad un altro Smith, solo omonimo dello scrittore precedentemente citato. Questo Smith, ecclesiastico inglese, e, evidentemente, anche critico letterario, non a tempo perso, esibiva senza timore il vessillo di questa affermazione: “Non ho mai letto un libro prima di recensirlo: la lettura ti riempie di pregiudizi”. Che dire? La sola reazione possibile è una speranza. Ossia che, trattandosi di un ecclesiastico, la sua confessione sia solo uno scherzo da prete.

Dopo questi divertissement, torno al punto, ossia al valore intrinseco dei libri. Spaziando qua e là si incontra una frase di Carlo Dossi che a mio avviso suona assai bene: “Un libro indegno di essere letto una seconda volta è indegno pure di essere letto una prima”. Ciò mi invita ad addentrarmi nello specifico dell’attività della scrittura. Lo faccio volentieri, partendo da un libro molto particolare, Se una notte d’inverno un viaggiatore. “Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto”, sottolinea Calvino. Gli fa eco in qualche modo, estendendo i confini del discorso, Thomas Mann. In un passaggio suggestivo di Morte a Venezia rileva che “La felicità dello scrittore è il pensiero che riesce a diventare completamente sentimento, è il sentimento che riesce a diventare completamente pensiero”. Dare e ricevere, rivelare e rivelarsi. Uno scrittore molto meno noto dei due appena citati, il russo Veniamin Aleksandrovič Kaverin, propone una valutazione sul rapporto autore-opera che, a mio parere, è pensata ed espressa con efficacia: “Un’attenta lettura delle opere di uno scrittore fa capire molto di più della sua personalità che la conoscenza della sua biografia, perché in quest’ultima si riflette quel che egli ha in comune con il resto dell’umanità, nelle sue opere, invece, quello che ha di diverso”. Complesso, opinabile, certo. Ma degno di riflessione. D’altronde, se tutto fosse chiaro e lineare, il fascino svanirebbe nel nulla. Il premio Nobel Heinrich Böll ebbe a dichiarare: “Quando mi viene chiesto come e perché ho scritto questo o quello, provo sempre un grande imbarazzo. Mi piacerebbe non solo dare ragguagli all’interlocutore, ma anche a me stesso, però non ci riesco mai”.

Anche in questo caso, ed è più che mai un bene che sia così, ho incontrato più dubbi che certezze, più ipotesi che sentenze definitive. Ogni libro è una scoperta, una scommessa, una meta che si individua solo dopo averla raggiunta. Tutto e il contrario di tutto. Un ultimo contrasto servirà paradossalmente a illuminare la visuale delle divergenze. Lo storico inglese Arthur Helps era solito dire che: “La lettura è un modo ingegnoso per evitare di pensare”. Vittorio Alfieri, qualche annetto prima, aveva solennemente dichiarato che “Leggere, come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare”. In definitiva, l’orizzonte resta brumoso. L’ambiente ideale per l’apparire di storie e figure, prodigi, fantasmi ed esseri in carne ed ossa.

Un libro non cambia la vita, forse. O magari sì. In molti casi è accaduto. L’ultima citazione che propongo è un epigramma di Giusti: “Il fare un libro è meno di niente/ se il libro fatto non rifà la gente”. La speranza, colossale e imprescindibile, è sempre quella: cambiare il mondo. E se il progetto è destinato a fallire, va bene lo stesso. Provarlo, tentare di scriverlo, e di leggerlo, è un po’ come averlo vissuto. Ogni libro è una piccola rivoluzione. Non contano le proporzioni, in questo caso. Per ognuno, in certi momenti, l’universo della propria stanza, e della propria mente, equivale al mondo intero.

Ivano Mugnaini