Leggendo l’Amleto, Lacan osservava in modo apparentemente banale come il principe di Danimarca non rappresentasse un individuo in carne e ossa, ma fosse piuttosto una funzione poetica, una sequenza di parole che si traducono in personaggio: una mera corrispondenza verbale. Cosa che equivale a dire che Amleto «non ha nevrosi, ci dimostra della nevrosi, ed è cosa del tutto diversa». Allo stesso modo, Emilio Brentani, protagonista del secondo romanzo di Italo Svevo, Senilità, non è tanto un inetto, nevrotico e paranoico, quanto piuttosto una sequenza di parole che dimostrano una stortura della psiche: un’indagine psicologica in forma di romanzo. Lo spirito di un’epoca (Senilità è del 1898, l’Interpretazione dei sogni di Freud è del 1899) si intreccia così nella storia di un doloroso – e a tratti tragicomico – intrigo amoroso ed esistenziale.

La narrazione segue le vicende di quattro personaggi. Emilio Brentani, protagonista del romanzo, è uno scrittore fallito che, dopo la modesta notorietà raggiunta dal suo primo romanzo, si riduce a lavorare come impiegato di una compagnia di assicurazioni. Amalia Brentani è la sorella di Emilio, timida e cagionevole, che vive in funzione del fratello, agognando un amore che non potrà mai esperire, a causa non solo della sua indole triste e melanconica, ma anche delle contorte macchinazioni del fratello. Stefano Balli, esuberante scultore e unico amico di Emilio, ne rappresenta una sorta doppio rovesciato: bello e spavaldo, sicuro di sé e fortunato: tanto in amore, malizioso dongiovanni dell’alta borghesia triestina, quanto nell’arte, scultore di successo. Infine, Angiolina Zarri, femme fatale, amante di Emilio, è una ragazza bellissima, ideale di musa ispiratrice, «una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita» (p. 404): libera da ogni pregiudizio sociale e dedita a un puro edonismo sensuale.

Dopo un breve e iniziale momento di felicità dovuto allo sbocciare dell’amore con Angiolina, Emilio cadrà velocemente nello sconforto di una gelosia spropositata, che gli toglie il sonno e ogni serenità, ancor più terribile in quanto sentimento irrazionale e dunque inesorabile. La gelosia travolge Emilio per la prima volta in occasione di una visita all’amante. Scherzando, Emilio incalza Angiolina vagheggiando gelosie e accusandola di tradimenti (per il momento soltanto immaginati). Lei lo redarguisce e gli dimostra un pegno d’amore, con l’intento di tranquillizzarlo, ma scivola involontariamente in un lapsus che aprirà una voragine incolmabile nel cuore di Emilio.

«Improvvisamente ella ebbe dipinta sulla faccia una grande ilarità, e dichiarò ch’era ben lieta di vederlo geloso. – Geloso di questa gente! – disse poi rifacendosi seria e con aria di rimprovero, – ma quale stima hai dunque di me? – Ma quando egli stava giù per chetarsi, ella commise un errore. – A te, vedi, darò non una ma due delle mie fotografie – e corse all’armadio a prenderle. Dunque tutti gli altri possedevano una fotografia d’Angiolina; ella glielo aveva raccontato» (p. 427). Emilio è scisso nel desiderio di possedere l’amata e la paranoia di essere tradito. Comincia da questo punto un percorso cupo e umbratile nelle paure e nelle ansie di Emilio, che lo porteranno ad allontanarsi e a diffidare di ogni uomo, persino del suo amico Balli, che nel frattempo ha accettato – su invito dello stesso Emilio! – di scolpire nel marmo il volto angelico di Angiolina.

Sullo sfondo di questa vicenda drammatica e travolgente si staglia la Trieste di fine Ottocento, incantevole nella sua natura di città bifronte (di eterni e infiniti confini, come scriverà molti anni più tardi il conterraneo Magris), bloccata tra la Mitteleuropa e il Mediterraneo. Scenario lirico del girovagare febbrile di Emilio, delle passeggiate serali con Angiolina e della vita affaristica e diurna dell’odiosa borghesia imprenditoriale. Città viva e misteriosa, attraversata da lampi di folgorante luminosità e ampie campiture di buio: simile alla Parigi di calcinacci e miserie della Comédie Humaine di Balzac, o alla Pietroburgo delle dostoevskiane scorribande notturne di Raskol’nikov.

«Amarono in tutte le vie suburbane di Trieste. Dopo i primi appuntamenti, abbandonarono Sant’Andrea ch’era troppo frequentato, e per qualche tempo preferirono la strada d’Opicina fiancheggiata da ippocastani folti, larga, solitaria, una salita lenta quasi insensibile. Si fermarono a un pezzo di muricciuolo che divenne la meta delle loro passeggiate soltanto perché la prima volta vi si erano assisi. Si baciavano lungamente, la città ai loro piedi, muta, morta, come il mare, di lassù niente altro che una grande estensione di colore misterioso, indistinto: e nell’immobilità e nel silenzio, città, mare e colli apparivano di un solo pezzo, la stessa materia foggiata e colorita da qualche artista bizzarro, divisa, tagliata da linee segnate da unti gialli, i fanali delle vie» (pp. 419-420).

Come un classico personaggio sveviano, Emilio è un vinto ancor prima di perdere. È immobile: intrappolato nella relazione con Angiolina e incapace di fare una qualunque scelta definitiva, si lascia attraversare dalla vita, osservandola da lontano, nell’immagine di un ricordo, come un vecchio (da qui il nome del romanzo: Senilità). Amore, gelosia e atti mancati si susseguono fino al precipitare risolutivo degli eventi: dove Amalia – a cui è stata inspiegabilmente negata da Emilio anche l’unica minima illusione d’amore –, ormai drogata e perduta in una dipendenza da etere, raggiungerà le vertiginose vette della follia, prima di spegnersi per sempre. Liberando, con il suo sacrificio, il fratello dalle contraddizioni del suo spirito, che risolverà accettando con sereno nichilismo la sua condizione finale di inetto: «“Strano – pensò, – sembrerebbe che metà dell’umanità esista per vivere e l’altra per essere vissuta.” Ritornò subito col pensiero al proprio caso concreto: “Angiolina esiste solo acciocché io viva”.» (p. 618).

Andrea Borio

(Edizione di riferimento: I. Svevo, Senilità, in Id. Romanzi e «continuazioni», a cura di M. Lavagetto, Mondadori, Milano, 2004, pp. 399-621)