Ho incontrato Sergio Atzeni qualche anno fa, a Cagliari. Io ero in vacanza, con l’idea vaga di scoprire se un giorno avremmo potuto vivere in quella città che non conoscevamo, lui, era morto.
Dico di aver incontrato Sergio Atzeni perché prima dei suoi libri, del suo libro che più amo, ho ascoltato il suo nome. L’ho ascoltato dalla voce calma, compassata, della signora che ci ospitava nel suo bed & breakfast. Disse: “Noi abbiamo uno scrittore che ha scritto un libro sui sardi, sui S’ard anzi, i danzatori delle stelle. È un libro che proviene tutto dall’acqua, comincia dai popoli del mare che arrivano qui. Ed è strano, perché poi quando ha consegnato il libro all’editore, pochi giorni dopo, questo scrittore, Sergio Atzeni, è morto annegato nelle acque dell’isola di S. Pietro… era ancora giovane”. O forse non disse così, ma io compresi questo e m’incuriosii. “Passavamo sulla terra leggeri, s’intitola il libro” soggiunse la signora, quasi svagata, oppure sognante, “È un libro bellissimo”. Uscì dalla stanza andando in corridoio, si arrampicò sulla scala verticale in ferro che portava ad una botola sul soffitto e sparì, come usava a fare, a prendere il sole sul lastrico solare del terrazzo.
Fu per quel titolo che acquistai il libro, lo trovavo un titolo bellissimo, fu per la pregevole edizione della casa editrice Ilisso [1] che cominciai a sentirne la fragranza, e fu per le prime parole del libro che, naturalmente, cominciai a leggere sicuro e affascinato «Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò la storia e quel che seppi era troppo, era pesante, immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell’uomo, del mondo e della morte. Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola»
Passavamo sulla terra leggeri è il compimento di una produzione letteraria di Atzeni tesa a creare un linguaggio, una ricerca, una mitologia originale e fantastica della Sardegna e dei sardi, di tutti i sardi, così diversi tra loro, così impregnati dalla terra e dall’acqua. Ma prima di ogni altra cosa questo è un libro che offre una narrazione ricchissima di eventi e personaggi, che unisce diversi registri, dal lirico, al drammatico all’ironico, che genera poesia non in ogni ma pagina ma per tutte le sue pagine. È un libro che si muove sinuoso nelle pieghe del tempo e della storia cominciando ad affondare le sue prime parole nel mito [2].
È forse improbabile cercare di spiegare qualcosa di un libro che ha la forma di una narrazione orale che si riflette nelle parole di Antonio Setzu, il custode del tempo, colui il quale ha il compito di portare la tradizione al bambino che sarà investito da essa e sarà il nuovo custode del tempo. Il bambino, passati trentaquattro anni, assolverà il suo compito e scriverà la storia, violando la tradizione orale, ma rispettandone praticamente tutte le forme in una mimesi narrativa tra personaggi narranti, narrati e autore. Da questo gioco di due voci in due tempi diversi, dalla narrazione del vecchio custode che è improntata alla prima persona plurale all’io narrativo del bambino futuro custode del tempo nasce un romanzo che esplode nelle sue forme viscerali, con una potenza e una dolcezza che, sinceramente, fatico a ritrovare nella letteratura italiana contemporanea.
Le invenzioni mitologiche, la commistione tra storia, fiaba e leggenda riverberano fin dal principio in un dipanarsi di situazioni ambientali che ci raccontano la nascita del popolo sardo e ci introducono senza che ce ne accorgiamo nelle sue caratteristiche fisiche, sociologiche ed emotive. Ma il popolo sardo è un popolo del mondo, che proviene dal mondo, e potrebbe essere paradigma di tutti i popoli in questa storia dove sono il mito primordiale e la rinascita che uniscono definitivamente le genti anche quando si separeranno, «Finché fummo ventuno villaggi e per ogni gente le altre venti erano estranee e nemiche».
L’ultimo romanzo di Atzeni è un libro che sicuramente appartiene ai sardi e alla Sardegna, perché ne scava l’anima profonda, ma proprio perché è un romanzo dell’anima e della sua prigioniera condizione umana, proprio perché la sua ricerca è una ricerca a ritroso delle radici comuni per mostrare meglio il presente e immaginare il flusso del domani questo è un romanzo che dovrebbe stare in ogni libreria che si rispetti, in ogni casa di chi ama i romanzi semplicemente meravigliosi.
Più ne scrivo e più capisco che non c’è una sola parola che potrei usare a ragione per descrivere questo libro, che è sfuggente e pesante come l’acqua che ti investe (è vero… ecco la sensazione dell’acqua che ha sentito chi me ne ha parlato), che è tutto nella bravura di Atzeni a portarci dentro il suo spazio narrativo composito e vibrante, struggente e a volte persino vigliacco. Uno spazio fatto di piccoli incisi e di brevi paragrafi che d’improvviso si recidono per lasciare spazio ad una narrazione che s’impenna e si fonde nei particolari di eventi apparentemente insignificanti che coinvolgono il corso della storia intera e formano giudici, creano fate e magici auspici, cruenti scontri individuali e di gruppo (incredibile il racconto, intrecciato nella storia, dei due compagni di tribù, Umur ed Eloi, che fin da piccoli, per motivi futili o per primeggiare, provano ripetutamente ad accopparsi o a mutilarsi coinvolgendo man mano tutta la genia dei loro rispettivi parenti fino ad allargare le vendette a tutta la tribù), che, in definitiva, ammazzano il tempo riportandolo costantemente ad una dimensione dove passato presente e futuro sono legati in un unico atto che si ripete eterno.
«A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti».
Ancora adesso, vedete, devo andare a riguardare le pagine del libro per cercare di metter a fuoco dove il viaggio cominci (in Mesopotamia?) e dove s’interrompa (all’epoca dell’inizio della dominazione spagnola nella storia narrata e anche, idealmente, nel punto preciso in cui il bambino adulto diventa custode del tempo cominciando a narrare). Devo guardare ogni parola per estrapolarne alcune ed avere il piacere di condividerle e poi mi ritrovo a leggere per pagine. Non posso toccare praticamente nulla trovandomi costretto a tagliare una frase lì, senza senso, perché il corpo del libro è grande, esteso, multiforme, e ogni parola appare segnata e intoccabile nel suo flusso. Come desideravano i calligrafi orientali forse, che la parola acqua bagnasse, che la parola vento soffiasse, ecco, ogni parola del libro emerge così nella lettura, nella sua accezione di singolarità e nella sua dimensione di legame, un legame primordiale, quasi religioso. In un romanzo che sa di odissea ancestrale e moderna, senza tregua.
Passavamo sulla terra leggeri è uno di quei libri che vorresti continuare a poter rileggere come se fosse la prima volta, perché se a rileggerlo è vivo, ancora in un’altra sua forma, è anche vero che, per gli uomini, la magia, lo stupore, sono tendenze che ci si abitua miseramente a perdere nell’abitudine stessa. Ecco perché sarete fortunati a leggere per la prima volta Passavamo sulla terra leggeri, ecco perché Atzeni è stato un grande scrittore, qui dove è riuscito ad esprimersi come non mai e qui, come solo nei libri fenomenali accade, dove ha sospeso il tempo e l’ha regalato a noi, per sempre.
Simone Battig*
[1] La prima edizione di Passavamo sulla terra leggeri è stata pubblicata dall’editore Mondadori nel 1996. Ora questo libro e altre opere di Sergio Atzeni le potete trovare nel catalogo dell’edizioni Ilisso e Sellerio editore. Per una bibliografia esaustiva consultare il sito www.sergioatzeni.com
[2] Spesso, dopo aver letto questo libro di Atzeni, ho ripensato ad alcuni percorsi del mito narrati e analizzati nell’importante e piacevolissimo saggio Il Mulino di Amleto di Sergio de Santillana ed Hertha von Dechend (Adelphi, ultima edizione, 2006)
E tu cosa ne pensi?