È solo a circa sessanta pagine dalla fine del romanzo che Lajos Zilahy, scrittore ungherese nato sul finire del 1800, rivela la motivazione legata al titolo del libro: io porto in me la nostalgia della patria come una oscura e tormentosa malattia dell’anima?

In realtà questa sensazione accompagna il lettore per tutta la storia raccontata con una malinconia latente verso la terra natia e la famiglia, che s’insinua tra le righe, lasciando, allo stesso tempo, spazio anche ad altri sentimenti.

Oltre al legame con la patria, che si sfibra anno dopo anno della permanenza del protagonista, Johnny, in America, si evince un’angoscia esistenziale legata alle difficoltà d’integrarsi in una terra così lontana dal proprio vissuto, sia in termini di lingua, sia di cultura e società, accompagnata dalla difficoltà di trovare un lavoro, dalla scarsità di denaro, dal ritrovarsi solo (Ma poi pensai che così almeno c’era qualcosa che nella mia sconsolata solitudine significava un tenue raggio di luce) e abbandonarsi alla tristezza di tale condizione.

La trama de L’anima si spegne, opera che sembrerebbe essere stata l’ultima delle sette scritte da Zilahy, è molto attuale, in quanto è incentrato sulla figura di un emigrante, costretto a lasciare l’Europa per l’America nel primo ventennio del Novecento: Questa lettera nella mia tasca è un messaggio che mi giunge dalla mia vita passata!

Leggendo la biografia dell’autore, pare che egli riconduca in questo libro il tema del proprio esilio, che lo portò negli Stati Uniti d’America, dove continuò a scrivere.

Lo spunto del viaggio è presente anche qui: un viaggio che affascina, seduce, e al tempo stesso diventa tenebrosa incertezza e paura dell’ignoto, quando dalla vita non si sa cosa aspettarsi ormai: Dio buono, tutto si rompe, tutto trapassa, tutto muore intorno a me!

La luce della speranza, però, non perde mai di vista l’intreccio. Devo credere nel destino. Questa frase si ripete il giovane protagonista, a un certo punto della trama, quando incontra, dopo alcuni anni, l’amore della sua vita, Jennifer, una ragazza che era solo un’adolescente nel tempo in cui, per caso, la conobbe. La sua salvezza aveva preso casa nell’amore sempre provato, e mai svanito, per lei.

Zalahy è abile nel raccontare una vicenda molto toccante, come quella dell’emigrazione, usando una poetica di fondo che alleggerisce il coinvolgimento del lettore, e che risalta nei momenti in cui riaffiora il ricordo dei familiari lontani e nei capitoli dedicati alla relazione dei due amanti, dal corteggiamento all’innamoramento.

Gli zigani, l’argenteria di casa, il valzer, e poi ancora l’albero di Natale di New York, le Ford, i sigarai (messenger boy) con la divisa verde, le case ammobiliate in stile americano: sono tutti dettagli di un periodo storico datato, attraverso cui è possibile fantasticare su due mondi, Europa e America, completamente diversi.

La vita di Johnny salta da un ascensore, in cui lavora all’inizio, a una villa che custodisce come segretario di un regista americano, fino ad arrivare alla svolta, dopo aver incontrato la fame e la povertà, e rischiato di morire per non perdere la felicità, la sua Jennifer. Honolulu sarà la svolta esotica che gli permetterà di lavorare, avere un figlio dalla sua amata, e denaro sufficiente per tornare a casa, e rivedere sua madre (finalmente le sue braccia tese in avanti mi trovarono), sua sorella, il cognato e il nipote.

Tutto mi era così noto, come se l’avessi visto ieri. Eppure tutto m’era divenuto estraneo.

È terribile come tutto è cambiato…

Simona Cocola

 

Zilahyʃìlåhi›, Lajos. – Scrittore e drammaturgo ungherese (Salonta 1891 – Sremska Kamenica, Voivodina, 1974). Attivo nella vita letteraria del proprio paese, condivise le posizioni politiche del governo precedente la guerra; nel 1948 emigrò negli USA. Al volume di esordio, Versek (“Poesie”, 1916), seguirono numerosi romanzi: Halálos tavasz (1922; trad. it. Primavera mortale, 1933); Két fogoly (1927; trad. it. Due prigionieri, 1930); A szökevény (1938; trad. it. Il disertore, 1939); The angry angel (1954; trad. it. 1956); The happy century (1960), che gli valsero un grandissimo successo anche all’estero. Notevoli anche le opere teatrali: Süt a nap (“Il sole splende” 1924); A tabórnok (“Il generale”, 1928); Tüzmadár (“Uccello di fuoco”, 1932); Szépanyám (“La mia antenata”, 1943), caratterizzate, come i romanzi, da un felice ritmo di narrazione. (dall’Enciclopledia Treccani)