Capita di rado di cominciare a leggere un libro e ritrovarsi a chiuderlo, senza essersi mai fermati, solo dopo essere giunti alla fine delle sue duecento pagine, lette con grande piacere e curiosità, esaurite con quel pizzico di amarezza che segna la fine di ogni cosa bella.
Capita invece spesso in Italia che, nel marasma delle pubblicazioni inutili, un libro importante, finemente intessuto e persino adatto ad un ampio pubblico di lettori di tutte le età ed esigenze passi colpevolmente inosservato. È questo il caso di Magnus (Editrice Santi Quaranta 2010), romanzo di Sylvie Germain, autrice ben conosciuta in Francia ma quasi assente nelle nostre librerie.

Avendo letto anche un precedente libro della Germain (che nonostante quello che scrivo qui di seguito mi ha comunque spinto a leggere Magnus) posso dire che, come per diversi motivi il libro precedente falliva sia nella storia che nella scrittura forse per troppa materia di cui son fatti i sogni, Magnus ha raggiunto di sicuro un apice letterario, e non solo è un libro degno di nota ma uno dei migliori libri che io abbia potuto leggere negli ultimi anni.

C’è persino un difetto principe nel romanzo, a mio avviso (ma sono sicuro che per molti lettori sarà invece un pregio…), ed è l’estremizzazione della storia, diciamo di quel carico, riversato proprio sulla trama, di situazioni e tipi narrativi, ancor prima che umani, che in un certo senso agganciano facilmente il lettore: il bambino orfano, l’ennesima contestualizzazione della Germania nazista e del male, l’amore di coppia come chiave di volta dell’esistenza e alcune forzature sui simboli dell’identità e della memoria. Ma leggendo il libro ci si rende conto che una storia del genere, con i suoi delicatissimi equilibri, scritta con questo stile al contempo viscerale e trasognato, con queste immaginazioni sul mondo e le sue trame, scaturita per di più dall’ambizione evidente di affrontare la narrazione di due monoliti dell’uomo come identità e memoria, forse necessitava proprio di questo substrato di chiari e istantanei tipi narrativi per far deflagrare la sua eco. Ecco perché il libro tutto non è mai banale, né è originale, ma semplicemente unico e mirabile. Scrivo di eco non a caso in quanto, per tutto il libro, è il concetto stesso di eco declinato in vari aspetti e nature a fare da letto del fiume della sostanza narrativa con risultati ammalianti per il lettore, dovuti anche ad un’espressività poetica del testo notevole, tipica dell’autrice e della sua scrittura.

La struttura del romanzo è segnata da capitoli denominati e numerati come Frammenti, che risultano però tutt’altro che frammentari nel tessuto del libro, tenendo invece una linea temporale ben precisa in evidenza ed ottenendo di sedimentare nel lettore una densità di informazioni, particolari e rimandi continui che rifluiscono senza soluzione di continuità, mimando in fondo quello che è il processo delle nostra memoria nel suo movimento. E inframmezzati ai frammenti, anche qui con effetti pregevoli di sinuosità e corpo della parola, la Germain pietrifica brevi pagine (quasi fossero degli unicum) che nelle sue intenzioni compongono chiaramente in superficie, da cui ci si inabissa, l’eco del libro stesso, pagine che seppure denominate di volta in volta Nota, Sequenza, Eco o altro vertono tutte principalmente sulla direttrice del pezzo bio-bibliografico. Troviamo quindi concise note biografiche dei personaggi del libro o di personaggi storici che vengono sfiorati o coinvolti dalla vicenda che il libro narra, oppure pezzi di altri libri che la Germain ha sicuramente amato (come il Pedro Paramo di Juan Rulfo), sentito suoi, e che, in questa struttura narrativa composita, funzionano a meraviglia per guardare con nuovi occhi e ascoltare più intensamente ogni pagina di Magnus.

Ma attenzione, non stiamo parlando del romanzo postmoderno che vi hanno spacciato negli ultimi decenni, qui si parla del romanzo e delle sue capacità quasi infinite, che è cosa ben diversa dall’eccesso di manierismo riservatoci da gran parte del postmoderno che non fosse l’eccellenza di quel modo di costruire e narrare storie.

Anche nella versione italiana la scrittura di Sylvie Germain traspare nel suo essere rarefatta e sognatrice, senza mai disperdersi nella favola ma trovando sempre una potenza realistica che forse solo le favole migliori hanno, dalla notte dei tempi. Ed è una fascinazione continua seguire un’idea narrativa forte come quella che ci propone l’autrice sul riconoscimento di se stessi come io. All’inizio del racconto Magnus è un orsacchiotto consunto che emana un discreto odore di bruciaticcio, compagno di un bambino dal nome imposto e soprattutto senza identità. Alla fine della storia Magnus è un uomo che nella ricostruzione di se stesso, della sua identità attraverso gli anni perduti e quelli nuovi conquistati, acquieta la sua anima solo dopo averla, per mano unicamente sua stavolta, perduta di nuovo completamente. Se vogliamo, perduta per un eccesso di esibizione di questo suo vero io riportato faticosamente alla luce dalla polvere della storia e della vita, cosa che induce anche a riflettere su come cerchiamo di vivere come individui nel mondo contemporaneo a mio avviso, su cosa vogliamo davvero per il nostro io e come lo facciamo vivere alla luce.

Magnus è un romanzo che riesce ad essere delicato, feroce, struggente e spietato. È un corpus potentemente unico dove, se la miriade di eco quasi trascendenti è continua, nessuna immagine, frase o parola può essere estrapolata dal fluire del racconto senza diminuirne la potenza, come accade forse solamente nella migliore opera poetica. È in questa composizione del quadro che risiede la malia che tiene avvinto il lettore sino alla fine senza cadute o pause, ma con molte inquietudini e bellezze.

Questo è un libro che potrebbe e dovrebbe avere un vasto pubblico, perché è già in noi in maniera piena, un libro del genere “Il pezzo di carbone che teniamo tra le mani, conchiuso anche dalle mani dell’autrice, diventa piano piano, sotto la pressione combinata, per tutti, un diamante”.

Vi invito pertanto a correre in libreria o in biblioteca per prendere tra le mani questo libro e cominciare a leggerlo, lasciando perdere per il momento l’ultimo best-seller e magari anche il ventesimo libro del vostro autore preferito che avete già letto, soddisfatto e arricchito abbastanza. Gettate anche solo un’occhiata a questo libro, sono sicuro che non riuscirete a staccarvene. Non è un libro impegnativo, ma è un libro impegnato, impegnato a mantenere viva la letteratura che forma nuova letteratura di valore nel deserto di vagiti e squittii letterari che abbiamo attorno.

Non so se Magnus sia un libro sulla nascita e sulla morte, o se sia un libro unicamente contro l’illusione del mondo. È a mio parere però un libro che porta il suo peso in un senso preciso, che mi fa venire in mente le parole che il grande Quino fa pronunciare al più materialista dei suoi piccoli enormi personaggi, quel Manolito che interrogato inutilmente dall’ingenuo Miguelito (e preso in giro da Susanita che lo reputa un grossolano sempliciotto un po’ stupido) sul come e perché si nasca e si muoia pronuncia, con un balzo quasi spirituale, più o meno queste parole che cito a memoria “Ha ragione Susanita Miguelito, io non so niente di questo… (perché non sono e non sarò mai in grado), a me non interessano le estremità della vita, a me interessa la vita”.

Se siete anche voi vicini a questa idea di principio di conoscenza del mondo degli uomini, Magnus è il libro giusto per voi. Per cominciare ad andare oltre.

Simone Battig*

Altri Strabook!
Di capre, intelligenze artificiale e di scrittori buoni solo da morti
Quando l’anima si spegne
Matteo Galiazzo: un’intervista cha-cha-chat?
Lo stagno di fuoco, Daniele Nadir
* Questo articolo è già apparso il 17 febbraio 2012 sul blog samgha.me (attualmente offline). Grazie all’autore per aver concesso la ripubblicazione