L’opera pittorica di Frida Kahlo fu covata in quel suo sfidare la vita, nella volontà di alzarsi, camminare, dipingere, fino alla fine, nonostante i limiti del suo corpo. Ma anche nella volontà di finirla perché la sofferenza era troppa. Nell’ossessione per Diego Rivera, nell’illusione di essere l’unica a poter occuparsi di lui, eppure nelle fughe quando il dolore che stillava da quell’unione era insopportabile. Nella passione e nel dolore. Frida ha bisogno di tutto questo per essere Frida, per provare a salvarsi nonostante tutto. Il dolore ha spogliato l’albero ma quell’albero è rimasto in piedi come la speranza a cui Frida in fondo si aggrappa con tutta se stessa. L’esperienza artistica di Frida Kahlo è fatta di grandi scuotimenti, in parte coscienti in parte frutto del ritmo urgente e inafferrabile dell’espressione artistica: guizzi dell’anima che scappano fuori e si sedimentano sulla tela. Tutti guidati da quello che probabilmente, caratterizza almeno diversamente un “lessico femminile”: una ricerca della verità, quella che sta sul fondo, quella in cui ci finisce tutto, quella che è ignota anche a noi stessi. Un amalgama su cui non smettiamo di rimuginare. Così mi piace interpretare la parola “mi realidad”, che a Frida stava tanto a cuore e in nome della quale si incazzava davvero quando Breton la considerava una surrealista. La parola che assomiglia alla parola, la realtà che assomiglia alla realtà, l’intervallo tra una parola e un’altra, la membrana tra lei e Diego. Questo forse cercava Frida.
E cercando quello che stava nella sua testa e nel suo corpo, ha preso l’immagine che la cultura patriarcale ha costruito della donna, arrogandosi il diritto di raccontarla, dipingerla e analizzarla e poi obbligandola a rispecchiarvisi dentro, e l’ha stracciata in mille pezzi. Senza pietà. La pittura come la usa lei, le permette di giocare con le fantasie maschili. E lo fa in modo brutale. Non è un riflesso delicato il suo che si sostituisce ad un altro riflesso. Frida espone la donna: quella che soffre anche a causa di Rivera, la donna che è riuscita finalmente a sublimarsi attraverso la pittura, a ritrarsi infinite volte. Anzitutto riappropriandosi del diritto di farlo. Lei è Cristo con la collana di spine al collo (Autorretrato con collar de espinas del 1940), è il cerbiatto trafitto come San Sebastiano (El venado herido del 1946, La columna rota del 1944), lei è la madonna impura, più nera di una madonna nera, senza il bambino in grembo, perché succede anche questo alle donne (Henry Ford Hospital), è una donna invalida sulla sedie a rotelle bella e possente come una divinità; è una donna “con bigote”, che vuole occupare la vita con gli stessi diritti dell’uomo (Autorretrato con pelo corto del 1940). Ed è forse qui la vera dimensione politica della sua opera.
Forse il senso di quella frase di Frida nella lettera a Jacqueline Lamba, “l’abito è vuoto” (vi ricordo: “mis faldas con olanes de encaje, y la blusa antigua que siempre llevaba hacen el retrato ausente, de una sola persona”), è tutto qua: riempire di nuovi significati l’iconografia classica e creare un simbolismo tutto femminile. E Frida cerca di farlo con quell’attenzione alle cose di cui parlano meravigliosamente Annalena Benini (I racconti delle donne) e Sandra Petrignani (Lessico femminile). Ma non è solo l’attenzione per le cose altrimenti trascurabili e insignificanti. Non è solo il sottotesto che soprattutto nell’arte femminile si fa finalmente testo, romanzo e tela. “La casa cucita con le mattonelle”, usando le parole di Amelia Rosselli. È piuttosto lo sguardo che si posa su quelle cose: uno sguardo che sicuramente nel caso di Frida viene dalle viscere, che è sempre in contatto con l’emozione. Tutti quei particolari nei suoi quadri si aggiungono ai ninnoli sulle mensole della casa azul, bambole, bambole vestite da sposa, tantissime bambole che cullava, statuette, scheletri di cartapesta, le parole elencate nel suo diario, i diminutivi, “doctorcito”, “chiquita”, “Friducha”, le reliquie cucite addosso, alle sottane, i suoi infiniti volti e i ricordi che affiorano sull’acqua di una vasca da bagno in cui Frida probabilmente immagina di suicidarsi (Lo que el agua me dio). Quei “simboli” raccontano, prima di essere ridotti a simboli da interpretare, un modo profondo di guardarsi intorno e raccogliere i pezzi che ci circondano. E lei li raccoglie con le mani e il colore. Frida scriveva: “mis pinturas están hechas con las manos y clavadas en las paredes”. Come se afferrasse quegli oggetti e le emozioni con le mani senza bisogno del pennello. Come se il pennello non servisse più da intermediario tra la tela e il suo pozzo nero.
Frida ha visualizzato la paura ancestrale che gli uomini hanno provato nei confronti della donna, del mistero della fecondità, del sangue del mestruo e di tutta la fisiologia femminile. E lo ha fatto servendosi della mitologia precolombiana, in quella spudorata sovrapposizione del suo corpo con quello di una divinità primordiale, madre-dea fertile, che cinge Frida, che a sua volta abbraccia un piccolo uomo. E sembra che Frida stia dicendo: “Ma paura di cosa?”. E tra i denti una fragorosa risata delle sue.
In quei dipinti che a volte conservano qualcosa di un vecchio manuale di medicina, Frida si appropria della scientificità, baluardo della cultura patriarcale per interpretarla ironicamente e riempire quel discorso che si vanta di essere così razionale, di tutto il dolore e la sensibilità che troppe volte si è lasciato all’universo femminile. Erano gli anni del surrealismo. Breton, Dalì, Magritte, Buñuel, Max Ernst e gli altri recuperavano l’elemento magico e onirico, gli davano pari diritto e attaccavano il razionalismo europeo. Eppure erano portavoce di un immaginario maschile appena un po’ esotico, in cui Nadja era ancora un altro mito… Frida, anche se ambiguamente, cerca di essere davvero sovversiva.
Poi sceglie di raccontare come Diego l’ha ridotta. Adorata ma anche “maltrattata”, senza volerlo, senza violenza, in un rapporto di coppia abbastanza burrascoso. E così rappresenta per la prima volta nella storia dell’arte un femminicidio. In Giuditta e Oloferne, Artemisia Gentileschi, vittima di violenza da parte di un amico del padre, rappresentò quello che le era accaduto, la vergogna e il processo, attraverso la vendetta sanguinaria, quella di Giuditta e nelle mani di Giuditta, la sua. Frida invece, racconta i fatti, denunciando il diabolico meccanismo sadomasochista, che in qualche modo teneva stretta anche lei a Diego. La rappresentazione di Frida è più libera e moderna. Eppure, nell’autoritratto in cui Artemisia si dipinse all’opera, il colpevole pende nel medaglione che ciondola al collo, a simboleggiare forse un superamento, una liberazione. Invece, il cammeo di Diego è tatuato sulla fronte di Frida, è parte del suo corpo. Quel terzo occhio è Diego (Diego y yo, Pensando en la muerte). E Frida non può liberarsene.
Frida è stata anche una performer avant la lettre. Ha lavorato sul proprio corpo attraverso la pittura e la messa in scena di se stessa, parata come una specie di divinità. Questa serie ossessiva di autoritratti, e la quotidiana “incarnazione” di sé stessa, anticipano il culto dell’immagine dei nostri giorni intrappolati in autoscatti che si riproducono e moltiplicano all’infinito, senza catturare più niente. L’ossessione di Frida per l’autoritratto scorre in bilico tra fissare se stessa, cedendo all’illusione di essere sempre la stessa persona, eternamente giovane, e sdoppiarsi nell’atto di dipingersi o di scriversi, moltiplicandosi in ogni quadro e dipingendo la folla che ci portiamo dentro. Alla ricerca di quella donna che avrebbe potuto essere, che voleva essere. Perché lei tra quei frantumi e travestimenti ha bisogno di restare legata a qualcosa di fisso, a un sogno, o un’illusione, a se stessa. Sperando che non ci siano nuove fratture e nuovi dolori.
Tanti pezzi di una sovversione che non si svolse attraverso la rivendicazione della soppressione delle discriminazioni ma nel tentativo più sottile di corrosione e riappropriazione dell’immaginario della cultura patriarcale. Frida discreditò in diverse occasioni il pensiero discorsivo, rifiutando di essere catalogata, con una forza ed ironia simili a quelle di una Elsa Morante. Quanto la fece stizzire Breton che voleva per forza farne un’icona del surrealismo, vedendo nella sua arte così femminile l’unione perfetta di “pureté absolue et rouerie parfaite” sic. E lei invece afferma con forza che dipinge e basta, dipinge quello che le passa per la testa. E così si reca a Parigi invitata da Breton che non ha preparato niente per la fantomatica esposizione (dov’è la vera rouerie?, mi chiedo allora), che non possiede più una galleria, si sente dire che le sue tele sono scioccanti, e sta sul punto di mandare tutto all’aria, non ne può più dell’intellettualismo ad oltranza, quello sterile, quello che si vuole sofisticato, quello che non vede la realtà… Ma poi la mostra è un successo, e lei è idolatrata da Picasso, Miro, Kandinsky…
Frida voleva sicuramente riabilitare attraverso la sua opera pittorica la mitologia indigena autoctona, quella schiacciata dal colonialismo spagnolo e censurata dagli americani. Le sue opere sono mosse da una forte rivendicazione delle origini messicane e dal desiderio di difendere quel patrimonio culturale, ed esemplificare in qualche modo quello che Diego teorizzava sulla pittura e la rivoluzione. Ma accade che nel fare tutto ciò, Frida faccia anche altro. Ed è quest’altro che cerco di rincorrere in queste pagine e che sicuramente spiega la bellezza atemporale della sua opera.
Quando Diego, nel ritratto che scrisse di Frida nel 1943, per il Boletín del Seminario de Cultura mexicana, analizza James Ford Hospital, distoglie subito lo sguardo dalla donna in lacrime, sua moglie, e lo sposta verso la costellazione di simboli che le gravitano attorno. Lei è in lacrime perché “la vita-feto è il fiore macchina, la lumaca lenta, il manichino, l’armatura ossea”. Questa lettura delle “immagini-ragione” dipinte da Frida è sicuramente azzeccata e sicuramente Frida la fece anche sua. Eppure c’è qualcos’altro o molto altro che fa che Frida sfugga anche a quel racconto di Diego. E questo qualcos’altro è quello che Diego non vedeva, quello che faceva soffrire Frida e che in qualche modo lei rappresenta sulla tela, anche in James Ford Hospital, indietro, rimpicciolito sul letto… Per Diego, Frida dipinse la dea-madre feconda, “la nascita come azione reale”. E invece Frida scolpì la non-nascita, l’infecondità, il non luogo, la resistenza…
Patrizia Cavalli dice che “in questo esercizio di sdoppiamento e di ricomposizione la Kahlo raggiunge la propria immagine che è quel che è, pura evidenza dell’essere dove l’interiorità coincide con il volto”. Anche negli autoritratti, il volto starebbe lì solo per far esistere tutto quello che sta attorno. Per creare “il miracolo vegetale del corpo”, un’altra ricomposizione: il corpo che si lega con quella natura esuberante e viva che lo circonda, scimmie, farfalle, ricami di pietre e di spine. In quella sua compostezza e gravità, dovuta anche agli orpelli, gessi e indumenti troppo pesanti, Frida terrebbe insieme le parti, i feticci. Anche Diego insiste sul flusso, l’energia elettrica in cui tutto gira. E la stessa Frida nel suo diario vede il mondo come una connessione pazza e irrazionale (loca y sin razón), un canto, l’unione di due principi. Ci sono delle ricomposizioni, ma non sempre. Non sempre lacci e vene sono sufficienti. E proprio quel fiorire di nastri che tengono insieme vuole dire che i pezzi non riescono a stare legati altrimenti. Scivolano via, crollano a terra, si sparpagliano. Ed è soprattutto quando non riesce a ricomporsi in un’immagine che Frida racconta veramente il suo volto e il nostro.
Frida rimase intrappolata nelle pieghe dell’abito Tehuana, l’abito azteco, l’abito da cui l’obiettivo di Ichiuchi Miyako sembra distogliersi nell’atto stesso di frugarlo. Forse non aveva altre strade. Non riuscì a riunirsi con quel corpo per emanciparsi veramente. Il tondo intitolato Il cerchio fu tra le ultime opere del 1954. Il cerchio è di nuovo il vaso, che è l’urna, la terra, la caverna, la tomba. L’abbraccio dove avviene la trasformazione. Lì dentro, il corpo di Frida va stemperandosi o incenerendosi (chiese che la cremassino), citando quell’origine del mondo di Courbet, senza volto, tutto vagina, che tutti conosciamo. Frida non aveva mai spinto fino a qui la disintegrazione: solo appare un tronco, quel pezzo che è lo snodo della femminilità. All’immagine voluttuosa, languida e impersonale di Corbet, Frida sostituisce il fuoco, che scorre in rivoli di fiori polposi, una donna, la fine. C’è un’immagine che evoca Elena Ferrante in Frantumaglia. Una scena del romanzo I giorni dell’abbandono a cui poi la scrittrice ha rinunciato nell’ultima stesura del romanzo perché diceva troppo, rendeva troppo esplicito qualcosa che doveva invece essere appena suggerito dalla scrittura e rimanere confuso: la povera donna napoletana che Olga la voce narrante non vuole essere, un fantasma che scaccia perché rappresenta la donna vittima dell’abbandono, dell’asservimento, delle angosce femminile determinate dalla cultura patriarcale, della fascinazione di morte. Nella scena soppressa, questa donna si spazza i piedi con accanimento fino a sbriciolarli sotto la scopa, “frantumarli”. In qualche modo Frida fa questo nelle sue tele, frantuma il suo corpo e le sue emozioni. Qui in questo tondo come non mai. Pero nella perdita di energie vitali a cui Frida è condannata e a cui in qualche modo si condanna ci sono anche una forza ed una vitalità che trabocca comunque.
Nel diario c’è una pagina di qualche tempo prima dell’amputazione dove Frida si disegna con delle ali, solo si vedono il volto e le ali, mentre il resto del corpo è cancellato dalla matita, e dalla malattia che la costringe ad amputare la gamba, l’ala rotta. E sulla stessa pagina si chiede: “te vas?”, è arrivato il momento? Restano il volto e le ali in un volo che non voleva essere zoppo. Il corpo la occupa ancora. Non è ancora arrivato il momento. In questo tondo invece, Frida cancella il volto (e forse l’anima), lasciando il tronco, che è stato ambiguamente il suo limite, quello di cui ha portato i segni, eppure una corda che non ha mai smesso di vibrare. Senza abiti, senza fronzoli sulla tela. Eppure vestita ancora nelle sottane indigene, per l’ultima volta, per l’ultimo appuntamento, quello con la morte. Spera di non tornare mai più, così scrive. Eppure, ancora, dentro, da qualche parte, spera di non essere dimenticata. Almeno da lui.
Silvia Acierno
L’abito di Frida (prima parte)
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