Allora, consolatore di vedove. Come sta?”, chiese Olive al buio, dal letto.
Sta lottando.”
Come tutti noi.”
Olive Kitteridge, Elizabeth Strout

Elizabeth Strout pubblicò Olive Kitteridge nel 2008: aveva cinquantadue anni. L’anno seguente, il romanzo vinse il premio Pulitzer. Elizabeth stava viaggiando in macchina, se ricordo bene, diretta a un aeroporto, quando la sua agente le telefonò per comunicarle la bella notizia.

Riesco a immaginare la sua incredulità, e la sincera sorpresa. Posso persino sentire – avendola per mia fortuna incontrata due volte, avendo cenato con lei, una sera a Torino, e chiacchierato di molte cose, tra cui ovviamente il vecchio Maine – la sua risata squillante nell’abitacolo dell’automobile. Mi pare sia molto importante, quella risata, che è contagiosa, credetemi: dice parecchio di lei, dello stupore con cui continua a guardare il mondo; e dice parecchio della sua scrittura.

Molti anni prima, un’altra automobile.

Una giovane Elizabeth era seduta accanto a sua madre, lungo una strada di Bath, Maine – l’auto era lì, parcheggiata.

Guardavano entrambe la gente passare sul marciapiedi. A un certo punto la madre le disse: “Oh, guarda un po’ quella donna. Non sembra impaziente di tornare a casa”.

Elizabeth si sporse in avanti, per vederla meglio – una sconosciuta – sul quel marciapiedi, poi chiese: “Perché, mamma? Come lo sai?”. La madre rispose: “Be’, è per via del cappotto. Non viene rammendato da un pezzo”, e lei avvertì il desiderio – una fiammata improvvisa – di conoscere la storia di quella donna, tutta la storia, di conoscerla in ogni dettaglio: sapere dove vivesse e con chi, come fosse la casa a cui non voleva tornare, non subito almeno, in che stato fossero gli altri vestiti.

La vita di quella donna, una sconosciuta.

Quella fiammata improvvisa, in un parcheggio lungo una strada qualunque di Bath, racconta il lavoro, i libri di Elizabeth Strout, da Amy&Isabelle in poi, meglio di qualunque analisi o saggio. È la radice profonda, che affonda giù nella terra del Maine – non quello da cartolina – di un modo di guardare il mondo, di guardare gli altri, che l’ha poi portata a ripetere sempre: “Nessuno è comune, nessuno di noi, per questo scrivo”, vicina ad altri scrittori – Kent Haruf ed Alice McDermott e Raymond Carver, John Williams di Stoner, per citarne alcuni – in questo americana al midollo, di quella parte d’America che intona il canto dei dimenticati o dei dimenticabili, l’epica di tutti i someone.

È stato il Maine a darle ciò che cercava, e a consegnarle le cittadine fittizie di Crosby, di Shirley Falls e West Annett. Il Maine le ha dato baie e pontili e diners davanti all’acqua in cui comprare ciambelle, le ha dato i boschi, le case e i giardini, i ristorantini e le fabbriche, i piccoli supermercati e gli ospedali e le case di cura, le aule scolastiche, le chiese congregazionaliste e i sentieri verso l’oceano – il paesaggio.

Il Maine le ha affidato la luce, la sua, come una grande promessa.

Lei avrebbe scritto della luce di febbraio. Di come cambiava l’aspetto del mondo. Stavano sempre tutti a lamentarsi di febbraio; che faceva freddo e nevicava e il clima era umido perlopiù, e la gente aveva voglia di primavera. Ma per Cindy la luce del mese era sempre stata un mistero, e tale restava tuttora. Perché in febbraio le giornate cominciavano davvero ad allungarsi e, a ben guardare, uno poteva accorgersene. E vedeva come, verso sera, il mondo sembrasse spaccarsi in due come un melograno, e la luce residua filtrare tra i rami nudi, come una promessa. C’era una promessa, dentro quella luce, ed era una cosa fantastica.
Olive, ancora lei, Elizabeth Strout

Ma soprattutto le ha dato la gente, le cosiddette persone “comuni” – e quindi noi, quelli come noi – il mistero delle nostre vite, banali e indifferenti soltanto per chi non ha occhi o non ha coraggio o fissa da sempre solo sé stesso. Il Maine le ha dato Olive, Henry e Christopher Kitteridge, Amy e Isabelle Goodrow, i fratelli Burgess e il reverendo Caskey, così come il Midwest, dai cieli sconfinati d’azzurro – il paese immaginario di Amgash, in Illinois – le ha affidato Lucy Burton.

In tutti loro, in una pagina oppure nell’altra, a un certo punto si accende la grazia – la parola grazia, pronunciata, mi sembra, ormai di rado. In tutti loro, la comprensione e il perdono, l’epifania e lo stupore dell’essere vivi.

Poi Olive chiese: “Com’è la tua vita, Betty?”.
Betty la fissò: “La mia vita?”, disse. E riprese a piangere. “Oh, come dire?” Agitò in aria il fazzolettino. “Uno schifo?”, disse, sforzandosi di sorridere.
Olive disse: “Be’, raccontami. Vorrei sentire”.
Betty piangeva ancora, ma sorrideva anche un po’ di più e disse: “Oh, una vita è una vita, Olive”.
Olive ci pensò su. Disse: “Sì, ma questa è la tua. Fa differenza”.
Olive, ancora lei, Elizabeth Strout

Ecco la grazia in Elizabeth Strout: è nei dettagli e negli incontri, ovunque accadano, nei movimenti più piccoli di ogni esistenza, quelli che piccoli invece non sono. È nella vita, è nella sua meraviglia, irriducibile.

Non si tratta di bella scrittura – anche se certo, quella di Elizabeth è semplicemente perfetta. Non si tratta di un gesto eclatante, un gesto il cui scopo, più o meno evidente, sia far parlare di sé (è un discorso lungo, e non mi ci addentro). Si tratta di sguardo, di comprensione e di compassione, qualcosa che sta nel momento in cui nasce ma che sai bene che non passerà, che non verrà cancellato né dimenticato, che ha già il suo posto in quella che ancora chiamiamo la letteratura. C’è qualcosa di quieto e di dirompente, in questo tipo di sguardo, d’intensità. C’è la voce calma dei grandi scrittori (e, certo, ripenso a John Williams, con il suo Stoner e il suo Missouri, di cui molto presto vi parlerò).

Torno a pensare alla giovane Elizabeth, ora, su un’automobile insieme alla madre, nella cittadina di Bath, intenta a guardare una donna con un cappotto male in arnese – non giudicare, neppure per un istante: guardare. E vedo lei ragazzina, sotto quel portico bianco del Baily’s Store di cui la settimana scorsa vi ho mostrato la foto, e sento la sua risata, qualche anno fa, in un ristorante a Torino, mentre parlava del vecchio Maine.

Tutti i suoi libri, tutte le storie che ha scritto, tutto il suo quieto cammino, mi sembra vivano qui, in queste piccole immagini, e in un passaggio di Olive Kitteridge, uno fra tanti, all’apparenza nient’altro che una battuta nel cuore del capitolo Marea montante:

Ho pensato a te, Kevin Coulson”, disse la signora Kitteridge. “Ci ho pensato spesso.”
Olive Kitteridge, Elizabeth Strout

Ecco la grazia e il segreto, dicevo, ecco la vera lezione: ho pensato a te, chiunque tu sia, ci ho pensato spesso, davvero, senza giudicarti. Ti ho pensato perché sei unico e insostituibile, e la tua vita è importante.

It’s just a life, Olive.
Well, it’s your life. It matters.

È una lezione che spero d’aver imparato. È la ragione che mi spinge a scrivere, ancora. È grazie a lei, a tutti i cantori dei someone.

Davanti all’oceano, lungo la costa del Maine, sotto l’azzurro dei cieli del Midwest oppure in un bosco in Piemonte, in fondo che cosa cambia?

Well, it’s your life. It matters.

L’auto riparte, la madre di Elizabeth alla guida. È una giornata fredda, là a Bath – la donna in effetti indossava un cappotto. Forse è febbraio. Il mondo sembra spaccarsi come un melograno, mentre l’auto percorre la strada, fino a sparire. La luce residua filtra tra i rami nudi, come una promessa: riusciamo a vederla persino da qui.

It promised, that light, and what a thing that was.

(Piccola nota margine di oggi: è difficile raccontare l’amore per una scrittrice come Elizabeth Strout, quel che per me rappresenta, quello che ha significato per la mia scrittura e quindi per la mia vita – perché le due cose si tengono insieme. Vi basti sapere questo: posseggo parecchie copie di ciascuno dei suoi romanzi. Non due o tre: diciamo qualcuna di più. Non si sa mai, ho pensato, non si sa mai!)

Elena Varvello

Crosby, Maine (prima parte)