Lungo la Harpswell Road, nella cittadina di Harpswell, Maine, c’è un piccolo edificio bianco a due piani, in scandole di legno, con un tetto che pare d’ardesia, una porta centrale e due alte finestre ai suoi lati. Ad accogliere i visitatori, un portico sorretto da quattro colonne sottili.

È la sede della Harpswell Historical Society. Nella foto pubblicata sulla pagina Facebook, il cielo è di un azzurro smagliante, il verde degli alberi è un verde smagliante, il bianco del legno è purissimo.

Si tratta di un edificio essenziale, severo: può sembrare una specie di luogo di culto – protestante, ovviamente. Ma potrebbe anche essere il protagonista di un quadro di Edward Hopper.

Molti anni fa, quell’edificio ospitava il Bailey’s Country Store (l’isola di Bailey, nella Casco Bay, è parte della cittadina di Harpswell). Un giorno, a quei tempi e sotto quel portico, una ragazzina bionda stava leccando un leccalecca. Lavorava lì, al Bailey’s Store (cosa facesse non so, ma sicuramente era in pausa). Doveva essere estate.

Una donna di passaggio si fermò a guardarla, le disse: “Oh, sei così graziosa! Posso scattarti una foto?”, e gliela scattò.

La madre della ragazzina, a cui più tardi lei raccontò quello che le era successo, si arrabbiò molto: non sopportava persone del genere: persone “estive”, turisti – da intendersi in senso dispregiativo. Invece lei ne era affascinata: erano uomini e donne, ragazzi e ragazze, venuti in vacanza da posti lontani, fantastici, esotici, posti in cui, ne era certa, non ci si sentiva così intrappolati, così bloccati come a Harpswell oppure a Brunswick, Maine, nel puritano New England, sotto il portico di un edificio in scandole bianche, austero ed essenziale.

Riesco a vedere quella ragazzina succhiare meravigliata il suo leccalecca, mentre la donna che le ha scattato la foto riprende il cammino, allontanandosi lungo la Harpswell Road (un lembo di terra che punta dritto all’oceano Atlantico). La vedo guardare la donna fin quando e fin dove è possibile, come guardasse un prodigio – una vita misteriosa che non le appartiene, un intreccio di vacanze e costumi da bagno, creme solari e macchine fotografiche, abbronzature e divertimento.

La ragazzina, nata e cresciuta nel Maine da una famiglia tutta New England (intere generazioni), fotografata sotto quel portico austero come un oggetto carino, un pezzetto di Maine puritano e biondissimo, si chiama Elizabeth Strout.

La baia era solcata da piccole creste bianche e la marea stava montando; si sentiva il rumore dei sassi più piccoli che si muovevano spostati dall’acqua. Si udiva anche il gemito vibrante delle funi che colpivano gli alberi delle navi ormeggiate.
Olive Kitteridge, Elizabeth Strout

Nell’episodio che vi ho riportato, c’è qualcosa che mi colpisce dritto al cuore, qualcosa che riesco a comprendere, che mi è familiare. Che cosa? Innanzi tutto, la sensazione di stare sotto quel portico, credo, e vedere la vita passare.

A pensarci bene c’è sempre un portico, nelle mie storie, e qualcuno seduto là sotto: la vita passa e si ferma un istante, come dicesse, “Posso scattarti una foto?”, prima di scappare altrove. Intendo dire che ci sono anch’io, seduta lì, nella mia provincia, tra i boschi – non è una baia, non è il New England e non c’è l’oceano ma insomma… – lontana da dove le cose succedono o sembra che accadano.

“Noi siamo nati nel posto sbagliato”, diceva spesso mio padre. Siamo persone da portici e dondoli arrugginiti, in fondo bloccate là sotto. Siamo persone da attese: lunghe serate estive a guardare il cielo, le luci nelle case dei vicini, con un cane che abbaia lontano, nella speranza che, prima o poi, arrivi qualcosa di nuovo o che qualcosa ci porti con sé.

Ma soprattutto quello che vedo è uno sguardo che nasce, che prende forma in quell’istante, ed è un momento bellissimo: lo sguardo di una scrittrice – Elizabeth Stout, allora un’adolescente – fin dal principio rivolto agli altri, rivolto al loro mistero, alla coda stupefacente di piccoli e grandi segreti che ciascuno di noi lascia dietro di sé. Uno sguardo puntato sui fuochi nascosti e su ciò che bisogna scoprire di noi, tutti noi (la donna che passa e che va, diretta chissà dove, e tu vorresti seguirla, capire che cosa significhi essere lei).

Nel corso del tempo, Elizabeth Strout, nata a Portland il 6 gennaio del ’56, cresciuta in piccole cittadine del Maine e del New Hampshire – oggi trascorre il suo tempo tra Brunswick e New York – ha raccontato diversi momenti del genere: in uno, se non vado errata, c’è una vicina di casa che cucinava pancakes deliziosi per colazione, innaffiandoli con sciroppo d’acero, e che alla giovane Elizabeth, babysitter dei suoi bambini, educata da genitori scettici di fronte a ogni forma di piacere e a ogni inessenzialità, sembrava così affascinante, così raffinata.

Sono momenti che devono valere molto per lei, non certo semplici aneddoti.

Quest’ultimo – la donna che cucinava pancakes – è interessante anche per un’altra ragione.

Quando la giovane Elizabeth, tornata a casa, riportò alla madre, nei dettagli e con evidente entusiasmo, lo spettacolo di quei pancakes con tutto quello che rappresentavano, la madre reagì dicendole: “Be’, non puoi mai sapere che vita conduca davvero la gente”.

Anche questo deve avere formato lo sguardo di Elizabeth Strout: in fondo non puoi sapere che vita conduca la gente, ovunque si trovi, qualunque impressione ti faccia. Devi guardare più a fondo, guardare meglio. Devi guardare sul serio, e non è facile. Perché il mistero degli altri – una rivelazione – è indubbiamente il mistero più grande.

Ma dopo che il figlio di Susan Burgess fece quello che fece, dopo che la sua storia finì sui giornali, perfino sul New York Times, e anche in televisione, dissi a mia madre, al telefono: “Credo che scriverò la storia dei ragazzi Burgess”.
È una bella storia”, approvò lei.
La gente dirà che non è corretto scrivere di persone che conosco.”
Quella sera mia madre era stanca. Sbadigliò. “Be’, in realtà non li conosci”, mi rispose. “Nessuno conosce mai veramente qualcuno.”
I fratelli Burgess, Elizabeth Strout

Già, il mistero. Le nostre vite, chiamate “comuni”.

La donna dei pancakes, la donna della fotografia. Una giornata qualunque nella Casco Bay.

Un ricordo: mio padre restava seduto per ore sotto il portico di casa nostra, le sere d’estate, in camiciotto e pantaloncini. Se non era depresso né euforico, gli piaceva molto parlare degli altri, bastava che mi sedessi lì accanto. Raccontava storie – un amico d’infanzia, un vicino, una donna in coda alla cassa della tabaccheria, il meccanico che gli aveva aggiustato la macchina, un benzinaio. Trovava in ciascuno qualcosa di interessante: nessuno sembrava “comune” ai suoi occhi.

Senti un po’, senti che roba…

Credeva di essere nato nel posto sbagliato – e d’esser sbagliato lui stesso – eppure, forse per questo, sapeva, o sentiva, che bisognava guardare più a fondo.

Nessuno è comune. Non sai mai davvero che vita conduca la gente, o cosa abbia dentro.

Senti un po’, ascolta…

Dovunque posi lo sguardo, pareva pensare – me l’ha insegnato così – la vita ti stupirà. È un grande mistero, non c’è che dire.

Quella ragazzina, a Harpswell nel Maine, bloccata col suo leccalecca sul portico del Baily’s Country Store (oggi la sede dell’Harpswell Historical Society), intenta a fissare una donna che si allontanava, avrebbe scritto, molti anni dopo, Olive Kitteridge e Olive, ancora lei, Mi chiamo Lucy Burton e Tutto è possibile, Amy&Isabelle, Resta con me e I fratelli Burgess – storie che hanno cambiato il mio sguardo.

Per ora lasciamola lì, con gli occhi socchiusi per via del sole in una limpida giornata estiva, l’oceano che pulsa oltre gli alberi, il cielo di un azzurro smagliante, il bianco del legno.

Segue la donna – la coda di piccoli e grandi segreti che porta con sé – fin dove arriva il suo sguardo, lungo quella strada che punta dritta all’oceano, poi torna dentro, nell’ombra più fresca dell’edificio che Edward Hopper avrebbe amato e magari dipinto.

Ha le dita appiccicose. Si guarda intorno, poi, semplicemente, riprende il lavoro.

Nel frattempo forse la donna ha raggiunto il mare.

Elena Varvello