Les vertus, les qualités, le courage, la méditation, la culture. Bras croisés, je me suis brisée à ces mots-là.

La Batarde, Violette Leduc

Ma anche distesa per terra/ io canto ora per te/ le mie canzoni d’amore.

L’albatros, La Terra Santa, Alda Merini

Questa storia comincia da un busto ingiallito, quello che una fotografa giapponese ha ritratto assieme ad altri oggetti della pittrice, stipati in un piccolo armadio della Casa Azul. Immagino quell’armadio nella stanza da bagno dove Frida doveva passare ore per abbigliarsi e ornarsi come una indigena Tehuan, la regione da dove proveniva la madre. Frida davanti a quell’armadio, una specie di superstite imperiosa e vulnerabile. Le scarpe con la zeppa che faceva fare su misura per nascondere la gamba destra più corta a causa della poliomielite avuta da bambina, poi prima di morire, la protesi che allacciava a quella gamba amputata per la necrosi. Le sottane, una, due, tre, bianco, fucsia, verde, il busto per mantenere dritta la colonna vertebrale che si era lesionata in quel terribile incidente sull’autobus da cui era uscita viva per miracolo. Le bluse di mussola dagli orli variopinti. I capelli neri e lucidi tirati in treccione strette sulla testa, le mantiglie, le forcine che tengono corone di fiori, smalto, rossetto rosso e tanti ninnoli aztechi che si agitano mentre le mani agitano le pillole di Seconal prese in quantità sempre maggiori. E in quei lembi scelti con un gusto che sarà copiato all’infinito, scivolano e si impigliano le sue emozioni. Me lo immagino come il luogo mistico ma così terreno della messa in scena e della trasformazione. O piuttosto di un desiderio ardente e inarrestabile di vivere nonostante tutto. Nonostante dentro sia tutto rotto e ricucito. Di volare, come gli uccelli, le farfalle dei suoi quadri. Lei che scriveva “a che mi se servono i piedi se ho delle ali”. E il desiderio è più tortuoso perché stringe a sé, come l’altro lato della tenacia del sogno, la consapevolezza che non potrà mai essere così per colpa dell’incidente, per Diego, per l’epoca in cui vive, nel Messico della rivoluzione e della prevaricazione, degli eroi e dei martiri. Ma poi a forza di rileggere le lettere, quelle ali nere si aprono piuttosto come un abbraccio il suo, che avvolge l’amato senza limiti, e quello da cui Frida ha bisogno di sentirsi accarezzata senza ipocrisie, senza tradimenti, senza mezze misure. Quello del cuore che tiene stretto. L’abbraccio che le è mancato lì, da qualche parte nell’infanzia, prima di tutto, prima di Diego, forse anche prima dell’incidente. Da qualche parte lei è nata “fottuta”.

Le foto ritratto di Ishiuchi Miyako che hanno catturato quegli indumenti e oggetti personali indecentemente sopravvissuti a Frida ma in realtà morti con lei, chiudono un cerchio che si apre con i ritratti scattati dal padre, Guillermo Kahlo, ebreo ungherese, nato in Germania, fotografo e artista, malato di epilessia. E passa per un cavalletto montato sul letto ed uno specchio appeso sul baldacchino per potersi osservare e dipingere, regalatole dalla madre, Matilda, una donna depressiva, che alla nascita di Frida, la affidò a una nutrice alcolizzata, eppure così preveggente in quel momento cruciale, quando, dopo l’incidente, Frida era immobile a letto. I genitori figurano flottando nella memoria tra i residui di sé che affiorano in Lo que el agua me dio. La stessa coppia di Mis padres y yo: stereotipata, marito e moglie, uno accanto all’altro in un ritratto tradizionale, una rispettabilissima sagoma di cartone che non è capace di consolare. Quando Frida era in ospedale dopo l’incidente, i genitori rimasero bloccati da quello che era accaduto e all’inizio non riuscivano neppure ad andare a trovarla. Accanto a lei si alternarono soprattutto le due sorelle, Matita, la più grande e Cristina, con cui vivrà una complicata simbiosi.

Lo que el agua me dio (1938)

Prima della pittura, prima di essere Frida, era una ragazza spavalda, provocatrice, seduttrice. Bruciava le tappe, travolgendo tutto e tutti. Poteva tagliarsi i capelli à la garçonne e travestirsi da uomo. Era sessualmente libera, come racconta Valeria Arnaldi (Gli amori di Frida Kahlo). Poteva desiderare il calore di un corpo femminile, tradire il suo amatissimo fidanzato Alejandro Arias, mentre gli giurava con tutta se stessa di amarlo. Si industriava per superare gli esami alla Scuola Nazionale Preparatoria, dove si formavano gli uomini e le donne del Messico postrivoluzionario, senza studiare troppo.

Poi a diciott’anni, un giorno come un altro, sale, scende e risale su un autobus quello sbagliato, quello che si scontrerà con un tramvia in un incidente terribile. L’invalidità a vita per i traumi sofferti scava una traccia profonda, che contiene tutta l’opera di Frida. Una scucitura da cui fuoriescono frammenti, emozioni e dipinti che crollano a terra. Il solco del malessere fisico e psichico, che Frida esibirà fino alla fine in una strana miscela di esibizionismo e solennità. Nel solco passa la ruota dentata con cui Frida diede forma al Panico, quando l’amica psicologa Olga Campos la invitò a disegnare le sue emozioni. È il solco da cui si irradiano altre crepe, quelle che rappresentano il Dolor, un altro disegno per Olga. Ne L’età del malessere, secondo romanzo di Dacia Maraini, il disagio tutto femminile di Enrica è un inchiostro che cola dalle pagine e tinge di nero il cielo e la città. Il dolore di Enrica è come attutito da quelle macchie nere, solo colpito a volte da un cono di luce bianca accecante come quella proiettata da un fanale. Un lampo che poi si ritira. Frida invece prende i pennelli e, distesa a letto, comincia a restituire le cose e la sofferenza interiore nei loro colori troppo vivi, insopportabili ed estenuanti. Comincia a toccare la vita con tutta se stessa.

Frida riuscì a superare lo shock grazie all’incoscienza e all’energia dei quei diciott’anni. Dopo pochi mesi, nonostante le multiple fratture e lesioni, nonostante le innumerevoli operazioni, l’immobilità e i busti di gesso, era in piedi. Il dolore si sente dopo, le ferite fanno male dopo. E con il dolore, a sostenerlo e a calmarlo, si fa strada con gli anni l’idea che quella processione di mali fosse scritta da qualche parte, che il suo destino fosse quello di una martire. In fondo da bambina c’era già stata la poliomelite e forse una malformazione congenita, la spina bifida. La poliomelite l’aveva già costretta a zoppicare, a nascondere sotto calzettoni e gonne a campana la gamba irrigidita, Frida pata de palo, così la prendevano in giro. Ma anche una determinazione: andare oltre il limite invalicabile del suo corpo, provare a cambiare il suo destino. Compiere il passo che la separa da se stessa.

Le foto della signora Miyako penetrano negli indumenti di Frida, perché l’autrice vuole mostrarne l’usura, le pieghe della stoffa che sono piaghe della carne, cicatrici attraverso le quali scivola nella solitudine di Frida. Vuole mostrarci il tempo e il vuoto. E così, scorticati dall’obiettivo, gli indumenti di Frida che un tempo l’hanno resa regina della scena possiedono ora solo la nostalgia dei vecchi costumi da circo, e la tristezza del travestimento eccessivo. Il vuoto delle foto della signora Miyako, raffigura appieno le parole di Frida: l’abito Tehuana è “el retrato ausente, de una sola persona”. Scriveva così a Jacqueline Lamba,  la pittrice moglie di Breton. Frida è andata via da Parigi, dalle piazze e dai segreti comuni. Per questo è assente. E Frida è la stessa persona perché non c’è nessuna contraddizione tra la donna che si strugge per la lontananza dall’amica amante, e quella che ama Diego Rivera al di sopra di tutto. Il vento le porta gli occhi, la pelle, i capelli di Jacqueline, ma tutto il resto, tutto quello che lega i buchi nella tela, i colori, la luce, i nervi, i fili e le distanze è una energia che proviene da Diego, che la unisce a lui. Anche se lui in realtà quei buchi non potrà colmarli. L’abito vuoto racchiude però anche l’idea di una catena, di una continuità con il passato, con le donne che l’hanno preceduta,  in cui il tempo soffia cancellando qualsiasi individualità. In una intuizione profonda, Miyako sta fotografando lo stesso abito sospeso di Ma robe est suspendue là-bas ou New York, tela dipinta quando Frida riuscì finalmente a convincere Diego a lasciare New York. Il suo vestito, che per quanto sia spoglio, è anche lei, è appeso a un filo. La sua vita è appesa a un filo, tra la vita e la morte, tra la culla e la tomba, sospesa tra la gloria e l’oblio, tra l’autostima e la depressione. Eppure è anche la coscienza forte di una individualità che è in primo piano e sovrasta la città disumanizzata e infelice.

Ma robe est suspendue là-bas ou New York (1933)

Dopo l’incidente, arrivò Diego. O piuttosto fu lei ad andare a cercarlo. Andò a cercare quell’avanguardia artistica messicana filocomunista. E lo fece entrando dall’uscio  sul retro, quello da cui entravano le donne. Lì dove le donne che vivevano liberamente la propria sessualità erano chiamate puttane; lì dove le donne che si abbandonavano ai corpi di altre donne, lo facevano solo per vendicarsi dei tradimenti dei mariti, per consolarsi; lì dove le donne rompevano i tabù, l’etica e la morale borghesi, ma sempre sull’orlo della “perdizione”.

Lì sull’uscio del suo salotto bohemien l’aspetta Tina Modotti, fotografa dalla multiple vite, rivoluzionaria ma piuttosto conosciuta per essere stata la “musa” del fotografo Edward Weston. Ora Tina è probabilmente l’amante e la protettrice di Frida, è stata o è ancora l’amante di Diego. Lui è uno dei più grandi muralisti messicani, un oratore travolgente, un personaggio polemico e ingombrante che stava sulla bocca di tutto il Messico. Un” Lenin del Messico”, lo definisce Claire Berest in Rien n’est noir. È già stato sposato due volte, ha già seminato figli legittimi e illegittimi ed ha vent’anni più di Frida. Tra Frida e Diego ci fu subito una grande intesa sessuale, ideologica e artistica. Raccontano che il giorno delle nozze, Frida prese in prestito da una domestica le sottane ricamate e la blusa antica e indossò il costume tradizionale Teuhantepec, quello delle indigene più belle e coraggiose del Messico. L’abito da sposa che era stato delle madre e che Matilda le aveva tramandato rimase appeso ad una gruccia. Nei murali che aveva appena affrescato nel periodo in cui frequentava Frida, prima del matrimonio, sui muri della Secretaría de Educación Pública, Diego la raffigurava nell’uniforme comunista: la camiciola con la stella su una lunga gonna grigia, nell’atto di aiutare i guerriglieri. In un’altra scena dello stesso murale, un’indigena Tehuana con un cesto pieno di alimenti sovrasta, raccoglie e protegge la comunità. Il giorno delle nozze, Frida si veste come l’ indigena amerinda, sceglie di essere quella donna del murale e continuerà a farlo in modi sempre più pittoreschi fino a quando Diego la dipingerà proprio così, in quelle vesti, come una Tehuana (Pan American Union, San Francisco City College, 1940) . Come se Frida sia sempre un passo avanti rispetto a Rivera. E con un bel po’ di provocazione, decida di incarnare quel sogno, quel mito. Di tirarlo giù dal piedistallo, dal muro, dalla volta, giù nel corpo di una donna impura e soffrente, nel suo, Frida, una donna che nel suo mestiere, la pittura, ha messo tutta se stessa fino alla fine. Frida è l’indigena col vassoio, che è il luogo della conservazione e della trasformazione del cibo, simbolo del potere della donna: un potere trasformatore e non distruttivo, come ci racconta Adrienne Rich. E allora in questo gioco di citazioni, l’indigena-Frida finisce per assomigliare di più a quella fotografata in pieno volto da Tina Modotti nei suoi bellissimi ritratti delle amerinde, piuttosto che all’ennesima divinità affrescata da Diego.

Lo sfondo del passaggio allo stile pittorico così personale ed irripetibile di Frida, furono New York e Detroit, negli anni della recessione, dove Frida seguì suo marito per due lunghi soggiorni.  Mentre Diego era a suo agio, almeno apparentemente, esaltato dalle commissioni prima di Ford, poi di Nelson Rockfeller, Frida osservava in sordina la high society americana così superficiale e assolutamente priva di gusto. Provocava ed esagerava ma con una misura tutta sua. Poi arrivarono i tradimenti incontenibili del pittore anche sotto gli occhi di Frida. La loro era una coppia controcorrente, eppure dentro Frida sperimentava quelle sensazioni così comuni di gelosia, sottomissione e solitudine. Aveva accompagnato il marito, aveva smesso di dipingere, ed era sovrastata da Diego, quasi inghiottita dalla sua mole e dalla sua energia famelica. E con Diego sarà sempre così fino a quando lui la tradirà anche con la sua amatissima sorella, Cristina. Allora Frida se ne andrà. Avrà altre relazioni con donne e uomini, suscitando la terribile gelosia di Rivera. Poi torneranno assieme e Diego diventerà sulla tela un bamboccio nell’Amoroso abbraccio dell’universo del 1949. La corpulenza dell’uomo schermita mentre lei lo sovrasta, come una madre. Allora Frida si convincerà che non ha più senso liberarsi di lui. Diego è dentro di lei, nelle mani, negli occhi, nelle lacrime, nei sensi (“Diegos sentidos”). Anche se la profondità della lacrima, la vertigine dentro, la fragilità negli occhi, la forza della mano che dipinge sono solo sue.

Amoroso abbraccio dell’universo (1949)

Ma ora a Detroit, in questo deserto di solitudine, di forte nostalgia per la sua terra, di collera verso Diego per le sue continue avventure, Frida abortisce di nuovo. Da questo grumo di sofferenza esce la tela James Ford Hospital. Per la prima volta nella storia dell’arte, una donna racconta senza eufemismi l’esperienza dell’aborto. Quella che resta dentro, mentre le porte del reparto in cui veniva ricoverata d’urgenza, esangue, si richiudevano e Diego rimaneva nel corridoio. La donna è sola sul letto, senza l’uomo. Solitudine assoluta, perché questa è una esperienza intimamente femminile forse anche più della nascita di un figlio. E nella sofferenza della composizione pittorica gocciola e dilaga la premonizione degli aborti che seguiranno. Sulla città capitalista si staglia il letto dell’aborto. In un’atmosfera gelida, quella lasciata dalle “mani di ferro”, i ferri chirurgici dell’ostetricia moderna, che hanno sostituito le mani di carne delle levatrici di un tempo, solo si sente l’urlo stretto in gola di Frida.

Inizia così la lenta accettazione del dolore più grande: non poter portare a termine una gravidanza per l’incidente che le aveva fracassato il bacino e trafitta da parte a parte. Questa mancanza, questo figlio non nato, la legò a Diego in modo indissolubile, ne fece lo specchio ma anche la scheggia, la vita ma anche la disperazione, quei fili elettrici e luminosi che attraversano lo spazio e la distanza e il tempo ma anche le radici di un luogo che la imprigiona.

Frida e Diego si sono sposati, hanno divorziato, si sono traditi, poi si sono risposati. Un’unione che li fagocitava entrambi. Una storia davvero melodrammatica. In questa corrente, quell’abito indigeno compare e scompare nelle tele, Frida lo indossa e lo dismette. Quando Frida scoprì che Diego la tradiva con sua sorella Cristina e abbandonò la Casa azul, tolse l’abito indigeno e si presentò sotto un nuovo travestimento: capelli corti e abito da uomo. Nella tela Souvenir, l’abito indigeno è sospeso a una stampella accanto a un Frida senza cuore. Il cuore enorme rosso per terra agonizza lungo una striscia di sangue. Frida cambia sesso, non vuole più essere una donna tradita e dolente. Ma solo per poco. Non ce la fa. E scivola di nuovo nel passo che la separa da Diego.

Lucienne Bloch, Diego and Frida caught kissing (1933)

L’abito tehuana è un pezzo di Frida, una donna che si apre tutta e si sminuzza. Patrizia Cavalli intuisce questa tendenza alla frantumazione e la attribuisce alla malattia, all’abitudine del malato a fissarsi sulla parte del corpo da cui proviene il dolore e quindi a dividerlo. Dopo, questa percezione distorta delle proprie membra, anche se il dolore scompare, si insinua dentro come una specie di superstizione e sfocia in un repertorio codificato. Il “repertorio” di Frida lo conosciamo: cuore, utero, colonna, piede…

Nella tela Unos cuantos piquetitos, il corpo nudo di una donna è mostrato sfregiato da tagli. Frida dipinse un fatto di cronaca, un femminicidio, riportando, sostenute da due colombe, le parole del criminale, che danno il titolo alla tela. Raccontando quel fatto, Frida racconta anche qualcosa di sé e forse anche della sua unione con Diego. Questa tela stupisce e travolge non solo perché è la prima a rappresentare un femminicidio nella sua crudezza. È lì sotto gli occhi, sbattuto in faccia come solo Frida sa fare. Ma piuttosto perché Frida riesce a rappresentare la resa psicologica della vittima: la donna che guarda se stessa mentre si lascia ridurre così da un uomo. Frida sembra vedere chiaramente il meccanismo autolesionistico che la portava ad essere succube di Rivera, questo suo desiderio di volere essere importante per lui, l’unica, la sola che contasse davvero, di volere essere comunque la sua eroina. Frida sa che Diego nasconde “una navaja”, un coltellino (immagine e parola che ritorna nel suo diario), che però è solo metaforico, non si vede, che fa altre ferite.

Frida dipinse l’ambivalenza di sentirsi fatta a pezzi da un uomo ma su un vissuto molto intimo di percepirsi già così, divisa, maturato nella malattia dopo l’incidente. Parti del corpo pendono dagli abiti. O languono per terra. Parlano fuori di lei. Frida cerca di unirle, abbracciarle, attraverso nastri, fili e cordoni, spazi e morfologie illusorie. Fino a sdoppiarsi nelle Due Frida, dipinta mentre divorziava da Diego, nel 1940, quando di ritorno da New York, aveva trovato il marito invischiato nell’ennesima relazione. L’altra Frida è anche Cristina Kahlo, la sorella più vicina. Frida sapeva che il suo corpo non le bastava, che aveva bisogno di un corpo sano, svelto, fecondo. Il corpo della sorella fu anche questo, un’estensione del suo corpo. Questa confusione dei corpi delle due sorelle, così vicini da confondersi, fu l’ennesimo regalo che con tutte le sue ambivalenze Frida offrì a Diego. Gli immolò un’altra sé più giovane e sana. La modella che posava per Rivera. Uno strumento di piacere senza le cicatrici del corpo della moglie. Ma anche se Frida aveva predisposto tutto, in quel suo “amor sin medida”, quando Diego fece quello che in fondo lei sapeva che prima o poi avrebbe fatto, e senza pensarci su due volte, prese Cristina, si prese quello che gli spettava, ovviamente Frida soffrì. Perché le maschere non possono nascondere il dolore a noi stessi. E mentre Diego si affrettò a dire tutto e il contrario di tutto, che delle due sorelle, Cristina era quella che aveva amato veramente e, poi, che Cristina non contava nulla per lui, Frida incassava anche quel colpo in modo imperscrutabile.

Altri pezzi di Frida, come sogni che si infrangono, sono quei frutti spaccati delle nature morte dell’ultimo periodo (Viva la vida). Quanto sono diversi quei fiori e frutti da quelli che dipingeva Georgia O’Keeffe, amica, e forse anche amante. Nella pittura di entrambe la natura esuberante, è una specie di estensione e simbolo del corpo. Ma i fiori di O’Keeffe sono labbra sinuose, che raccontano di una donna che sta bene nella propria pelle, e che riesce a percorrere quella galleria di petali che si sovrappongono all’infinito. Il fiore si slabbra in veli trasparenti anche se in un miraggio molto simile a quelli di Frida, al fiore e alle sue tube si sostituisce nell’immaginario pittorico di O’Keeffe, il teschio di un animale. I frutti di Frida, invece, sono spaccati, gusci vuoti, polpe filamentose, i cui filamenti pendono come ragnatele in cui si resta impigliati. Non c’è via d’uscita.

Viva la vida (1954)

Cosa succedeva davvero tra Frida e Diego, dopo Cristina? Diego aveva inferto un altro colpo. La manipolava e la teneva in pugno. Eppure Frida era cambiata ed era capace di vendicarsi, prendersi la sua celebrità, e tradirlo appena poteva, con uomini eccezionali, perdutamente sedotti da lei.  Si invaghiva, magnetica, li amava per rivalsa o per questo suo bisogno di sentirsi amata, gratificata, e poi si stancava come si stancò di Trockij per tornare sempre da Diego. Vittima o carnefice?

Probabilmente Frida sta in mezzo, in questo suo bisogno di vivere l’amore sempre come un “amour fou”, come una notte insonne, un palpito che straccia il cuore. Come intrigo, gioco clandestino, rete di infedeltà in cui lei spesso fu l’oggetto dell’amore, della gelosia e del desiderio delle coppie che i Rivera ospitarono nella loro casa. Natalia e Trockij, Breton e Jacqueline, Rivera e Tina Modotti, Rivera e Lupe Marín, la seconda moglie. In un triangolo si era trovata sin dal primo incontro con il muralista in cui la leggenda vuole che Frida giovanissima nei corridoi della scuola dove Rivera eseguiva un murale, si sarebbe piantata lì ad osservarlo sul ponteggio e a provocarlo sotto gli occhi della compagna. È come se Frida abbia bisogno di essere stretta tra un uomo, Diego, che dà forma al desiderio e lo stesso uomo, che ambiguamente lo distrugge.

In bilico, come l’abito che sventola, Frida vuole affermare se stessa, vincere su Diego, la sua battaglia con quest’uomo, che la scaccia per sentirsi libero ma che ha anche bisogno che lei fugga per possederla davvero. Nel ritratto che scrisse di Diego nel 1955, anche se era tutta presa dalla necessità di fare un omaggio senza macchie di Rivera, è di lei stessa che scrive “IO”. Vuole diventare davvero l’argine di quel fiume in piena. Vuole essere a tutti i costi con Diego quel “punto verde dentro una quantità di rosso”. Lei il cromoforo e lui, l’auxocromo. Ma in qualche modo l’amore immenso per Diego si fa grottesco. Sì quegli amori senza perdono, senza perché, senza ritorno, hanno qualcosa di grottesco o forse solo di incomprensibile. Incomprensibile questo suo rincorrerlo cocciutamente anche se può innamorarsi di altri uomini, legarsi in modo profondo e investire se stessa in altri legami. E come se una metà di Frida, come le scriveva Murray, forse l’amante più vicino, non riesca a non rimanere fedele a Diego. Solo l’altra metà è riuscita ad amare altri uomini fino a sentirsi distrutta, sconsolata, come succedeva con Diego. Ancora una volta Frida si divide tra i suoi amanti, uomini e donne. Per poi cercare di raccogliere i pezzi, di rimetterli assieme.

Lucienne Bloch, Frida at the border (1932)

E quando Diego decide di sposarla di nuovo, lei di nuovo ribalta tutto. Accetta di sposarlo ma a condizione che non abbiamo più rapporti sessuali. Ancora una volta la provocazione viene da lei: il matrimonio che celebrano si fonda sul tradimento. Cosa resta allora? Frida ha capito che la vita va così, come scrive al suo caro dottore Eloesser? Si è rassegnata? A partire da questo momento è come se siano entrambi stanchi, come se stiano replicando comportamenti deleteri a cui ognuno per i suoi motivi non è stato capace di rinunciare. Tutto sembra esagerato. Fino a quell’ultima esposizione a Città del Messico, la prima integralmente dedicata a lei. Frida arrivò in ambulanza, e rimase distesa in un letto a baldacchino allestito nella galleria dove gli amici andavano ad omaggiarla come in un avanscena dei suoi funerali.

Nella prefazione a Doppio Ritratto, Maria Cristina Secci propone una metafora molto poetica dell’unione Frida-Diego: il ponte che unisce le due scatole di cemento della casa-studio nel quartiere di Sant Ángel. Certamente le vite di Frida e Diego erano solidamente unite da un corridoio, sospeso sul vuoto, sottile, resistente e fragile. E certamente i due blocchi di cemento perfettamente uguali furono i contenitori ideali di due personalità che volevano affermarsi su un piano egalitario. Ma non così l’uomo e la donna. E i due ritratti accostati nell’architettura del libro, apparentemente simmetrici, lo rivelano. Frida nomina Diego sin dalla prima riga, e quel nome ritorna infinite volte, con una familiarità che sta tutta nella ripetizione. Diego invece si dilunga in un’introduzione sull’arte indigena messicana, calpestata dal colonialismo spagnolo, pensa che sia necessario inquadrare Frida in quella storia, e solo nelle ultime pagine, racconta Frida…Un’asimmetria tra il culto di Frida per Diego e le parole di ammirazione ma meno travolgenti per “il pittore che rappresenta più di tutti la rinascita artistica messicana”.

Perché tutta questa esaltazione in Frida? Forse perché sente che la fine è vicina, come si annusa un temporale. Sa che il suo corpo non reggerà e ha bisogno di Rivera comunque, e non vuole cedere alla disperazione. Ha bisogno di quel calore, di tenere attorno a sé tutti quei momenti vissuti, gli amici, gli amanti. Ha bisogno di quella platea. E lei al centro. Poi Frida entra nel territorio tetro della malattia e della morte, “la nuit tombe sur ma vie”. Dopo l’amputazione della gamba, l’ultima prova, la più lacerante. La affronta mostrando ancora una grande forza, il desiderio di aggrapparsi a qualcosa. Ma è troppo. Tutto si strappa, le cuciture, le emozioni e i colori. È il 1954. Frida ha solo quarantott’anni. Mentre Diego si occupa materialmente di lei, le spese mediche, le infermiere, ma continua a scappare, assorbito dalla pittura e dalla sua ultima amante, la sua agente che sposerà dopo la morte della moglie, Frida moribonda si strugge per ricevere quell’abbraccio incondizionato che Diego non riuscirà mai a darle. Lì sfida la morte. E la cerca partecipando ad una manifestazione con addosso una broncopolmonite e imbottendosi di farmaci che forse furono la vera causa del collasso. Il buio calava così sui sogni che a volte sono traditori, sui desideri che non erano stati sufficienti, sulle mancanze che forse avrebbero saputo curare, sulla tragedia che doveva sempre trasformarsi in una festa d’addio, perché la morte è sempre in agguato ma tutto il resto è vita.

(fine prima parte)

Silvia Acierno