“Il corpo della donna è il terreno su cui è stato eretto il patriarcato”.
(Adrienne Rich, Nato di donna, Garzanti, 1976)
La lunga storia di Dacia Maraini arriva a ritroso fino alla seconda guerra mondiale e comincia in qualche modo lì, in un campo di concentramento in Giappone, sotto le bombe. A Nagoya dove sono confinati, la bimba è protetta da due genitori belli, forti, immensamente forti, come due semidei. A quell’età in cui tutto ci appare grande ed estraneo, loro erano lì a rendere accettabile ogni cosa, anche mangiare felci e cacciarsi vermi del sedere. Senza compiangersi, perché l’incubo finirà e arriverà Bagheria, la città materna, e la sua luce che si frantuma su ogni cosa. Nel ricordo, Bagheria e Nagoya si sovrappongono e si confondono: sono il nido, il bozzolo appiccicoso che sente di farina e di erba nel campo di concentramento. Il bozzolo rappresenta la fame, il sesso, la maternità, è viscido e attrae. E le manine bianche di Dacia che giocano con il bozzolo sono le mani che già stanno scrivendo. La bambinetta che osserva con sorpresa il paesaggio siciliano nel viaggio che riporta la famiglia Maraini dal Giappone a Bagheria, ne assorbe forme, profumi e tinte, sta già sperimentando la sorpresa e la felicità di raccontare. Questa bambina è la giovane donna che rifarà quel viaggio scrivendo Bagheria, e lo rifarà ancora prestando i suoi occhi a Marianna Ucrìa, che, trascinata a Palermo dal signor padre, segue le cose che le sfilano dinnanzi con la stessa intensità visionaria.
La storia di Maraini avanza dritta, lega il presente e il passato, il lessico perduto e quello ritrovato, la madre e la sua assenza. Ci sono storie che a toccarle sembrano una tela grezza, sono ruvide, pungono e infastidiscono. Quella di Dacia Maraini invece scivola giù come un fiume. Le pagine dei suoi romanzi sono trasparenti e calme. Eppure anche i fiumi nascondono le loro impurità, solo che stanno intrappolate nel fondo. Per Marianna Ucrìa, la protagonista di uno dei suoi romanzi più belli, il mondo galleggia nel silenzio che è un’acqua morta. Dacia però non vuole grattare il fondo del fiume. O lo fa a modo suo, con una certa reticenza, senza drammi, con pudore, lo stesso pudore che usava con suo padre Fosco. Lei lancia sassi e osserva le increspature benevole dell’acqua.
Elena Ferrante usa una parola insolita e feroce per cercare di descrivere le origini della sua scrittura. Una parola così meravigliosamente onomatopeica e a me tanto familiare. Dice: frantumaglia. Con questa parola cerca di raccontare e restituirci non solo l’origine di una scrittura, la sua e quella femminile, ma anche un’esperienza di scollamento dalla realtà, che sperimentano le donne, le sue almeno. Solo alcune riescono a sublimarla, altre ne soccombono. Nell’Amica geniale, succede a Lila, devasta Melina, degenerando in pazzia, e devasta in fondo anche Lila. Lena, altra protagonista del romanzo della Ferrante, che la vive attraverso i sensi di Lila, osservandola, desiderandola e invidiandola, è l’unica a riuscire a dominarla e a controllarla attraverso la scrittura. È una emozione che si rompe, una sensibilità che si sdoppia e si moltiplica, uno strattone violento, uno choc, lembi che si ricompongono attraverso la scrittura. Quello è il suo “pozzo nero”.
Di pozzo parla anche Natalia Ginzburg nel Discorso sulle donne per descrivere un luogo di fragilità in cui la donna resta indifesa ma da cui sgorga anche la sua immaginazione. Il pozzo è così un’immagine ambivalente. Nel pozzo si annega, dal pozzo si riaffiora. È buio pesto lì dentro, ma dal pozzo si riporta alla luce qualcosa di perduto, nascosto, segreto. È invisibile, ma permette di scoprire e rendere visibile. È un buco, ma anche la superficie. È chiuso, ma può anche essere la porta verso un altro mondo, come per l’Alice di Lewis Carroll… Anche le parole che la Ginzburg usa per costruire questa immagine restano ambivalenti. Vuole davvero liberarsi di questa parte dolente che possediamo? È ironica quando dice che le donne devono difendersi dall’“abitudine malsana” di sprofondare nel pozzo perché altrimenti non saranno mai libere? “Così devo imparare a fare anch’io per prima perché se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finché sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi”.
Per tante scrittrici, la creatività batte come un delirio, un malessere. Penso ad Elsa Morante o a Marguerite Duras. Altre volte invece la scrittura sembra non patire avversità. È ferma e chiara, non apre voragini, forse è un modo per barricarsi contro quegli urti. Qui c’è Dacia Maraini. La sofferenza entra comunque nelle sue storie, ma diversamente. E diversa è l’esperienza che ne facciamo come lettori. Non restiamo intrappolati in labirinti. Seguendola scaliamo una montagna dove anche le emozioni più desertiche ci saziano, la malinconia lascia intravvedere la felicità, l’addio può anche essere una festa. Resta però qualcosa di inaccessibile, uno spazio chiuso e fresco, come Bagheria, che la scrittrice sembra voler custodire, mostrandolo solo appena, timidamente. Moravia, che è stato per anni suo compagno, raccontava lapidariamente che Dacia era forte e dolce.
Nella storia di Dacia Maraini e nella sua scrittura sono presenti due genitori adorati, che continuano ad accompagnarla anche nelle pagine dell’ultimo romanzo, Corpo felice, come se avessero scoperto il segreto dell’eterna giovinezza. Loro sono gli argini del fiume. L’origine della scrittura e della gioia di raccontare. La seduzione, il pudore e la riservatezza nei confronti del padre antropologo, che partiva per le sue ricerche e per una vita libera. La sofferenza per quelle assenze e il desiderio di controllarle, raffigurandoselo come un figlio che resterà sempre nel grembo. E con gli anni, soprattutto dopo la separazione dei genitori, la costruzione di un rapporto con il padre fatto di cameratismo ed emulazione. Un rapporto su cui si modelleranno anche quelli con i suoi compagni di vita, con Moravia, e con il suo ultimo compagno Giuseppe. “Io appartenevo a mio padre, alla nonna inglese scappata di casa abbandonando tre figlie e il marito per andare vagabondando fino a Baghdad…”.
Ma Dacia appartiene anche a Topazia, la madre tenace, dalle mani forti, discendente dei duchi di Salaparuta. Bagheria, il primo romanzo, l’inizio, è la casa materna. La villa Valguernera è lo spazio che limita la capacità visuale dei suoi abitanti, come il palazzo Cerantano di Menzogna e sortilegio, romanzo di esordio di Elsa Morante. Luogo della commedia, delle eccentricità di una nobiltà siciliana decaduta, che non permette di vedere più in là delle sue mura, ma soprattutto luogo simbolico dei rapporti tra i genitori come sono percepiti e fantasticati dai bambini, come restano cristallizzati nel nostro inconscio. Mentre in qualche modo Elsa Morante resta tragicamente intrappolata in quello spazio claustrofobico, Maraini ha un rapporto più sano con la sua Bagheria. Questo luogo da cui sgorga la scrittura è uno spazio interno arioso, appena nostalgico.
E sempre a Bagheria, custodita in quella villa, come in una scatola cinese, è appeso il ritratto della giovane nobildonna muta, Marianna Ucrìa. Anche Marianna è l’origine. Di nuovo l’origine è la casa materna. Con Marianna, Dacia si identifica. Marianna è la metafora della scrittura e della sensibilità femminile. La scrittura è rinchiusa e custodita nella villa di Valguernera, come un racconto tramandato dalle sue antenate. Bagheria sono i racconti della madre che consolano la fame nel campo di Nagoya. L’abbondanza, la montagna di pistacchi, canditi e uvetta. Topazia si è già ribellata a quell’aristocrazia superba, ostinata e spietata a cui appartiene. Dacia, a sua volta, si ribella a questa discendenza, ma senza violenza, dolcemente. E si lascia avvolgere comunque da “quei capelli” ribelli e arruffati della madre e del nonno materno. I capelli che la madre ha ereditato da lui e Dacia da lei, sono comunque la chioma dell’albero che fa ombra e ristora.
Nelle acque del fiume, Dacia Maraini cerca la voce di un figlio desiderato e nato morto, concepito giovanissima con il pittore Lucio Pozzi. Un’esperienza che ci accomuna tutte. L’utero che diventa una tomba, gli altri che si difendono dietro il linguaggio della scienza, una madre che ti dice di essere forte, di andare avanti perché ce la puoi fare, è successo anche a lei e a sua madre prima di lei. Ed ora succede anche a te perché non volevi, perché non sapevi, perché non potevi, perché è accaduto e basta. E tu trattieni quella cosa, “quel pezzettino di carne che non conta più nulla” con tutte le tue forze, poi vedi la conchiglia, il lembo di lenzuolo, le braccia che non ti lasciano vedere e scappi via nuotando nelle lacrime di un gigante che non riesci a cavare fuori. “Pietra e nuvola gli appartenevano come consistenza, un poco solido e un poco evanescente, era lì a frullare nel mio tempo di madre, come una piccola meravigliosa farfalla”.
Quello strappo, la perdita di quella maternità e di tutte le altre ritorna una e una volta nei suoi romanzi. Ma il tempo ha trasformato il dolore in rassegnazione, nella sua lettera a un bambino mai nato, in una nuova nascita. La Fallaci scriveva la sua lettera straziante quando la ferita dell’aborto era ancora aperta. A rileggere quelle pagine la si sente combattere con la donna emancipata che ha troppi impegni per avere bisogno di un figlio, con la donna che ha l’ambizione di continuare a vivere tra i “lupi”, nonostante tutto. Mi manchi, dice Fallaci, eppure mi manchi meno di ieri, io corro bambino mio e ti dico addio con fermezza, dammi la mano… Maraini invece accoglie il figlio e la sua perdita senza contraddizioni, con la sua solita dolcezza, e prosegue quasi quel dialogo che Fallaci abbozza nelle due ultime pagine della sua lettera. Marianna Ucría era già una riflessione sulla maternità vorace che ti ingoia, eccessiva, quella che perde l’oggetto del proprio amore e si nutre di quella perdita. Anche se è la violenza sessuale a togliere la voce a Marianna che con i suoi figli sembra riuscire a comunicare nel silenzio, la sua resta una maternità alienante e invalidante. Quella di Corpo felice è invece la scrittura e l’invito a una relazione più equilibrata e tenera con la maternità, così come con il nostro corpo. La maternità non deve essere un cortocircuito, in cui ci realizziamo e ci perdiamo.
Al suo perdutello, Dacia racconta instancabile la sua storia e quella delle donne, alla maniera del Secondo sesso di de Beauvoir. Una lunga storia di esclusione, complicazioni e introiezione di tanti sensi di colpa. Raccontare questa storia è un modo di interrogarsi sul temperamento femminile, sui meccanismi, a volte perversi, che ci fanno essere come siamo e di offrire spunti per riflettere sulla scrittura femminile. Recalcati, citando Lacan, spiega che la donna è l’Altro assoluto, il diverso da sé, che proprio perché è fuori di te è misterioso, inafferrabile e irriducibile. È la donna che aprendo l’uomo all’esperienza dell’amore scioglierebbe la sua integrità virile e introduce nella sua vita la mancanza, la perdita, il dolore. Esperienze tipicamente femminili contro cui l’uomo ha (istintivamente o culturalmente?) eretto un muro; sentimenti da cui è immune, che non vede e non vuole vedere, barricato come una tartaruga nella sua compattezza fallica.
Ma così la donna resta sempre imprigionata nel suo destino di dover incarnare l’altro, l’estraneità, l’alterità. E in fondo sempre il mistero. Perché non possiamo essere banali come gli uomini? Una donna forse è un discorso con quel destino storico che Dacia ci ricorda ancora una volta. Una declinazione sofferta e costante con l’eterna immagine di delicatezza, sensibilità, tristezza, fragilità… Con quella necessità di sentirsi legittimata da lui, sentirsi umiliata. Una donna è quello che fa con la parte che gli è stata assegnata, passando dall’introiezione alla ribellione o all’esclusione. Marianna Ucría fuori del suo abito di broccato, che toglie frettolosamente e in cui si assesta pigramente. Ma un corpo che oscilla, si è addomesticato a sublimare, si moltiplica e divide, rischia sempre di non appartenersi davvero.
Anche all’uomo tocca fare i conti con un destino già dato. Lo descrive Francesco Piccolo nell’Animale che porto dentro, questa educazione alla violenza, alla bestialità, alla mascolinità. Diventare predatore, guerriero. Sono i cambiamenti che Maraini immagina di scorgere in quel figlio mai nato, nella prepotenza inaspettata di un figlio adolescente, che non riconosce più. Eppure la parte che ci è stata assegnata è così diversa. L’uomo si porta dentro come dice Piccolo “un animale” appunto, di cui nonostante quello scomodo sentimento di estraneità, sembra comunque essere orgoglioso, perché è l’unica via per emergere come dominatore, autore di quell’ordine a cui tutto si riduce. La donna invece porta dentro “un bambino” già perduto. L’uomo porta nella pancia superbia, fierezza; la donna qualcosa di dolce, quella nostalgia per quell’essere che si stacca da lei nel momento stesso in cui a lei sembra di covarlo e custodirlo. L’uomo in fondo porta dentro sempre e solo sé stesso.
Questa capacità di accogliere e staccarsi, questa corporeità complicata e divisa entrano a volte con furia, altre con ironia o dolcezza nella scrittura. Annalena Benini nel suo Racconti delle donne coglie la capacità delle scrittrici e delle donne di unire mondi diversi; rappresenta l’”intersezione” tra la vita pratica che alcune controllano e in cui altre falliscono, sentendosi incapaci e inadeguate, e “la sfera di fuoco nel cappotto”, ovvero l’ambizione di scrivere e la necessità di essere sé stesse. Una donna ha sempre nella borsa, una lista della spesa, un biberon e una parola. La capacità di annaspare tra egoismi e sopraffazioni, esasperazione e avvilimento, esiste ed emerge continuamente nella scrittura femminile. La capacità di raggiungere il sublime parlando anche di cose banali. Di parlare dell’esistenza anche quando se ne fa l’inventario, penetrare la realtà anche quando se ne mostra solo la superficie, di chiacchiere da caffè, figli, panni da lavare… La continuità tra dentro e fuori, tra percezione e razionalità rivendicata dal pensiero femminista. Ma non è solo questo la scrittura femminile. Maraini esorta le donne a gioire dei loro corpi, che sono anche corpi di madre e delle loro mani di donna. Ecco, le scrittrici scrivono con “mani di carne”, le mani delle levatrici, le mani che hanno ricamato, che hanno cucito, che scavano nel pozzo. Quando scrivono le donne continuano a ricamare, a tessere, a modellare quel vaso antichissimo che conservava gli elementi e li trasformava…Quello che scorre tra le loro mani è l’arte della trasformazione. E come scrive Adrienne Rich in Nato di donna: “il potere vero e significativo è quello trasformatore e non quello sugli altri”. Così come la mente della sartina analfabeta che doveva imparare il mestiere nel misero stanzone del padre era capace di attraversare le sbarre della sua voliera e inseguire il pulviscolo colorato del gesso, oltre quel marciapiede dove dovevano camminare come merce in mostra che non si tocca, e raggiungere il marciapiedi di rimpetto dove stanno gli uomini, la piazza, i tornanti, e andare solo un po’ più lontano. La vaga idea di quello che avrebbe potuto essere la sua vita e che non sarebbe stata è scritta in quelle pieghe, buca la stoffa e la ricuce.
Silvia Acierno
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