Parlare di scrittura “femminile” è ancora un tabù. Si viene subito accusati di ghettizzare alla rovescia. Eppure, così come succede per la parità di stipendio o di diritti sul lavoro, anche nel mondo letterario c’è ancora tanta strada da fare perché il peso specifico di una scrittrice donna sia equiparato a quello di un collega uomo. Prendete le antologie, sfogliate i giornali, e soprattutto tornate indietro al passato. Vi accorgerete di come le donne, anche le più importanti per l’evoluzione del discorso letterario, siano sempre rimaste in una posizione di minore visibilità, di relativa importanza. Alcune invece erano addirittura invisibili. Anche se silenziosamente contribuivano allo sviluppo di un discorso culturale e letterario.

Un giorno mi sono accorta leggendo una lista di libri, di come Dacia Maraini abbia cominciato a pubblicare proprio nell’anno in cui io sono nata, il 1962. Il primo romanzo di Dacia, La Vacanza, scritto da diciassettenne e pubblicato quando la scrittrice ha appena ventiquattro anni, viene accettato da una piccola casa editrice ma si chiede alla Maraini di farsi scrivere la prefazione da Moravia. La condizione è posta per la pubblicazione, così che il libro venga “spinto” dalla fama del romanziere. Se si considera la storia narrata ci si accorge pure di quanto questa sia coraggiosa: nell’Italia del ’43 una giovane donna racconta le proprie esperienze sentimentali, la confusione generata in lei dalle forti pulsioni erotiche, spesso consumate con uomini leggeri oppure perversi che le lasciano dubbi esistenziali e sapore amaro sul corpo, invece della molto anelata soddisfazione amorosa. Una lingua scarna, influenzata da letture esistenzialiste è quella usata per il debutto dalla Maraini.

Ora se una delle nostre più grandi e importanti scrittrici ha pagato uno scotto, è proprio quello di essere stata spesso timbrata di “femminismo”. Troppo orientata verso la condizione della donna per essere una romanziera a tutto tondo. Eppure, nel ’62, la società dei letterati sembrava intanto accusarla di aver “sfruttato” il nome del grande Moravia per lanciare il proprio libro. È lecito dedurre che una donna che voglia pubblicare un libro o iniziare una carriera letteraria debba pagare pegno, venga giudicata oppure incasellata in qualche stereotipo?

La Maraini non disconosce la sua propensione per certi temi invece, e in un’intervista rilasciata nel 1999 al compianto Severino Cesari è lei stessa a fare – in merito a una domanda sulla “mancanza di parola”, tema ricorrente che compare con centralità in La lunga vita di Marianna Ucria ma anche in Isolina, in Voci in Bagheria – queste considerazioni:

S. Cesari
“Parlando di temi profondi tuoi, c’è il tema forte della mancanza di parola… (…)”

D. Maraini
“Probabilmente ci sono due piani di interpretazione. Uno è simbolico: la mancanza di voce come mancanza di autorità, e questo riflette una condizione di genere; la storia mi dice che le donne sono state private della parola. Poi c’è un aspetto privato, che esce dal simbolico… (…)

* cit. AA.VV., Dedica a Dacia Maraini, Ass. per la Prosa Pordenone, 2000

“La storia mi dice che le donne sono state private della parola” è una frase molto forte su cui ancora oggi mi viene da riflettere. Tutte le volte che noi donne affermiamo di venir zittite in molti modi, il mondo maschile  – e non solo quello; ci sono donne pronte a schierarsi subito da quella parte – considera la rivendicazione di più libertà d’espressione come un tormentone trito e inutile, una lamentela gratuita di chi, ponendo il problema, finisce per accentuarlo.

Sempre dalla stessa lista di libri evinco che intorno al mio anno di nascita sia stato pubblicato Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg . È questo un testo di riferimento della mia formazione letteraria giovanile, che mi ha aperto alla storia famigliare della scrittrice stessa, del marito Leone co-fondatore con Giulio Einaudi della casa editrice omonima, ucciso in prigione dai fascisti. Noi che possedevamo un lessico di famiglia abbiamo amato l’inventività di quel linguaggio, l’apertura mentale di quegli intellettuali, il coraggio di un’identità culturale moderna. Abbiamo conosciuto tramite Natalia tante personalità di scrittori, abbiamo saputo della morte di Pavese, ci siamo sentiti un po’ più cosmopoliti insieme a lei.

Eppure la Ginzburg, che nel ’63 è la seconda donna dopo la Morante a vincere lo Strega, ci viene “narrata” come intellettuale e scrittrice attraverso un’immagine di rigore, e all’ombra spesso dei grandi uomini cui opera accanto.  Pur nel suo esserne la consulente, l’ispiratrice.

Trovo conferma di questo anche nel recente ritratto dipinto da Sandra Petrignani con il suo libro La Corsara, che scandaglia a fondo la personalità e l’enorme eredità intellettuale e letteraria lasciataci da questa donna:

“Lei era diventata la “Ginzburg” (…) era il potere editoriale negato ad ogni altra creatura di sesso femminile (…) era l’opinionista battagliera di grandi giornali italiani e le sue opinioni ci stordivano (…) Era una donna austera e triste, che raramente sorrideva. Si vestiva in stile monacale, di scuro, scarpe basse maschili”.

** cit. Sandra Petrignani, La Corsara, Neri Pozza 2018

La donna sta nella letteratura in bilico. Tra la femminilità e il riconoscimento, tra i temi universali e quelli “delle donne”, che paiono subito meno nobili, elevati.

La  Ginzburg e la Maraini nonostante qualche “bollatura” di troppo sono celebrate oggi tra le voci di donna più pregnanti nella società e nella cultura. Ma ci sono di contro autrici che non sono venute neppure a galla con il loro lavoro letterario, o che sono cadute in qualche incredibile oblio. Certo si opporrà subito che forse erano “minori”.  Sarà vero? Emergere vuol dire sempre avere maggiore qualità? Possiamo prendere per buona questa affermazione?

Pongo qui due casi- esempio, perché è ovvio che un discorso approfondito avrebbe bisogno di molto spazio. Mi riservo di tornare con un secondo articolo su un’analisi di questo tipo, seppure spostata più avanti verso l’oggi.

Mi soffermo velocemente su Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti) – che la Maraini cita tra le sue grandi ispiratrici – per dire come oggi sia pressoché innominata, e che la recente pubblicazione di una raccolta di suoi racconti composti per i giornali (grazie ai tipi de La Nave di Teseo) sia passata abbastanza inosservata. Eppure la Banti conta ufficialmente, per la cronaca, tra le grandi autrici della storia della letteratura.

Concludo con un’esplorazione.

Sempre nella stessa lista di libri, (stilata da questo magazine su cui compare il pezzo e a cura dei suoi redattori) dove quelli elencati vengono considerati dai redattori “fondamentali” per il periodo storico preso in considerazione, mi sono imbattuta in un nome mai sentito prima. Quello di Giana Anguissola.

Mi domando come sia possibile che non abbia mai sentito parlare di questa autrice, come di altre presenti nella lista, e inizio una ricerca. La curiosità per quella in particolare si è accesa in me a causa del cognome, Anguissola. Come Sofonisba, una delle prime esponenti femminili della pittura europea cinquecentesca, molto meno famosa lei di Artemisia, della Sirani, delle poche donne pittrici famose di allora.

Entrambe piacentine le Anguissola, con qualche casato in comune probabilmente. Entrambe all’ombra di altri nomi hanno operato, suscitando in qualche fruitore della loro opera, comunque sia, ammirazione.

La Anguissola inizia a scrivere a diciassette anni, come la Maraini.  È giornalista, scrittrice per ragazzi di grande pregio, come la Ginzburg. Anch’essa è sposata con uno scrittore, il russo naturalizzato italiano Rinaldo Küfferle. Scriverà per il Corriere della Sera e quello dei Piccoli, sarà poi sceneggiatrice e una delle prime a capire la forza dei nuovi media – radio e televisione – per la diffusione culturale. Il suo contributo alla TV dei Ragazzi sarà importante negli anni ’60 e mentre si esaurirà piano l’impegno nella letteratura per adulti , la scrittura per ragazzi diventerà sempre più centrale per l’Anguissola. Numerosi i premi che le sono stati attribuiti per il giornalismo e la narrativa. Lo stile è innovativo, il suo linguaggio è visivo e vivace, i dialoghi veloci e moderni.

Prendo un esempio da Il diario di Giulietta, libro per ragazzi uscito nel 1958; un brano dove la protagonista, nel passaggio dalla pubertà all’adolescenza, cerca di acquisire una precoce consapevolezza di sé e delle proprie azioni, che saranno appunto narrate, esaminate in un diario.

La porta, sospinta con violenza, sbatté rumorosamente contro lo stipite sovvertendo un instante la pace ancora notturna diffusa nella camera di Giulietta, mentr’ella balzava di scatto dal letto premendo il bottone della luce, guardando spiritata il fratello Puppo, un ragazzo biondo, grassoccio, coi capelli scarruffati in cima al capo (…)

– Ma Puppo, è questo il modo di entrare in camera di… di una…

Mentr’ella cercava di definirsi secondo la bambina che più non era, e per cui già da due anni aveva ottenuto una camera tutta per sé, invece di continuare a dormire nel lettino gemello accanto a quello della sorellina Trotta, il fratello, mostrando di non prendere minimamente in considerazione i suoi sforzi per valutarsi, spinse il suo arbitrio fino a spalancar la finestra (…) senza trascurare di rispondere nel frattempo:

– Va là che non sai nemmeno tu che cosa sei! Signorina no, bambina non più… Puah! Ascolta piuttosto la grande notizia!

Ma Giulietta, un turbine di coperte sotto cui si rannicchiava per difendersi dal freddo e si sporgeva per gridare:

– Chiudi! Chiudi! Che ti prende? Sei ammattito? (…)

Il libro dell’Anguissola che avevo scorto nella lista, Violetta la timida, sarà uno degli ultimi pubblicati dell’autrice. Uscito nel ’63, a pochi mesi da quello di esordio di Dacia Maraini, La vacanza , che narra, abbiamo detto, degli amori di una giovane donna nel ’43, l’anno per l’appunto in cui Giana Anguissola diede alla luce il figlio Riccardo.

Pochi anni dopo, nel ’66, Giannina detta Giana morirà per un cancro al seno.

I percorsi delle donne autrici sono spesso molto più irregolari, qualche volta carsici. Giana Anguissola fu la vincitrice del Premio Viareggio per esordienti nel ’31. Bisogna arrivare al ’39 con la vittoria di Maria Bellonci per trovare una scrittrice che sia rimasta nella storia del premio.

La storia della letteratura tende qualche volta a dimenticare le donne che scrivono o a metterle comunque in secondo piano. Per la parola scritta vale lo stesso teorema della parola orale, ma non conviene ripeterlo troppo spesso se non si vuole essere rimproverate di vivere in un eterno senso di inferiorità, magari autoimposto.

Scavare nella storia della letteratura ci può comunque restituire nomi che, se rimasti in sordina, aggiungono valore al panorama della narrativa femminile. Una ricerca di cui vale la pena.

Anna Bertini

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