La camera da letto di Nancy era la stanza più piccola e più personale della casa, femminile e spumeggiante come un tutù da ballo.
A sangue freddo, Truman Capote

Holcomb, contea di Finney, sulle pianure del Kansas occidentale, a poca distanza dal confine con il Colorado, la terra di Kent Haruf, di cui vi ho già parlato. È una zona isolata, quella parte del Kansas, chiamata “laggiù” persino nel resto dello stato. Siamo nel Midwest, il cuore agricolo e operoso degli Stati Uniti, un posto di cristiani devoti, soprattutto coltivatori, che le domeniche mattina riempiono le chiese. Un orizzonte di cieli sconfinati, campi di grano e silos, campanili e fattorie, prima del grande salto delle Montagne Rocciose.

Nel 2010 Holcomb contava una popolazione di un paio di migliaia di abitanti, tutto qui. Non certo una città, neppure una cittadina: piuttosto un villaggio tranquillo, lontano 1594 miglia da New York, un giorno intero di viaggio in automobile attraverso il Missouri e poi l’Indiana, l’Ohio e infine il West Virginia.

Proprio laggiù, nello stato del grano – magari dalle parti di Holcomb – abitava la piccola Dorothy, protagonista de Il meraviglioso mago di Oz. Ricordate la sua storia, no? Dorothy viene portata da un tornado, insieme al cagnolino Toto, nel magico paese di Oz. Lì, vive un’avventura dopo l’altra. Alla fine riesce a ritornare in Kansas, nella sua fattoria, dove, sdraiata a letto, sussurra con sguardo sognante: “There is no place like home”.

Nella tranquilla Holcomb, tra campi di grano e sotto cieli sconfinati, potreste ancora oggi imboccare un vialetto bordato da olmi cinesi. Quel vialetto, un lungo rettilineo, vi condurrebbe, curvando all’improvviso, a un’ampia fattoria a due piani, costruita nel 1948, costata 40.000 dollari (moltissimo), dotata di una certa eleganza – diversa dalle altre, più raffinata – quasi appoggiata gentilmente sul verde tenero di un prato ben curato. Graziosa: un posto, per quanto isolato, in cui parrebbe bello poter vivere.

Non è cambiata affatto, almeno all’esterno: è ancora come allora. In quell’allora di cui vi sto parlando, apparteneva alla famiglia Clutter, da tutti benvoluta e rispettata.

Era dei Clutter, la notte del 15 novembre del 1959. Erano loro – Herb e Bonnie e due dei loro quattro figli, Nancy e Kenyon – a essersi augurati: “Buonanotte”, prima di ritirarsi in camera da letto e spegnere le luci.

Goodnight, see you tomorrow.

Facciamo un salto, adesso. Immaginiamo un uomo – piccolo e curioso, una specie di un elfo – intento a leggere un giornale, a 1594 miglia da “laggiù”. Il suo appartamento si trova a New York. È la mattina del 16 novembre.

Seduto in poltrona, oppure sul divano, quell’uomo sta leggendo il New York Times. È una giornata limpida e pungente: spicchi sottili di cielo newyorkese galleggiano sui tetti dei palazzi. Il rumore del traffico, giù in strada, le voci della gente, ma nell’appartamento c’è silenzio, solo il frusciare della carta, il respiro dell’uomo.

Sul tavolo da pranzo, forse, i resti della colazione: tazze di porcellana e briciole di pane o croissant.

L’uomo dall’aspetto curioso ha pubblicato l’anno prima un romanzo, Colazione da Tiffany, che, per quanto breve, gli ha richiesto più tempo del previsto – si dice in giro che non riuscisse a scriverne il finale. È stato un successo, in ogni caso, quello che lui desidera da sempre, quello che ha già ottenuto coi libri precedenti. Aveva trentaquattro anni, allora. Ora ne ha trentacinque, compiuti da due mesi.

Il 16 novembre del 1959, un lunedì.

Il nome di quell’uomo è Truman Capote.

E quindi Truman sta sfogliando il giornale. Non sa – o forse avverte una strana sensazione? – cosa sta per succedere.

Indossa una vestaglia, pensiamolo così. Legge un articolo e poi volta la pagina, il New York Times tra le dita sottili, forse una sigaretta, lasciata a consumarsi in un posacenere.

Ha molte cose per la testa, Truman: un nuovo romanzo, per esempio, un’altra storia che vuole raccontare, a cui ha già dato un titolo: Preghiere esaudite. Ma soprattutto – e questo è davvero interessante – da un po’ di tempo continua a pensare alla non-fiction, e più in particolare alla parola verità.

“Mi piace che la verità sia la verità, in modo tale che io non possa cambiarla”, ha detto a Phyllis Meras, cronista del Providence Sunday Journal, l’estate di quell’anno – il pezzo, intitolato Writing isn’t therapeutic for Capote, è uscito il 19 luglio. “Mi piace avere la sensazione che qualcosa stia succedendo al di là di me e attorno a me, e che io non possa farci niente.”

Frasi curiose, sembrerebbe, per uno come lui, un romanziere, spregiudicato e frivolo, pettegolo e ambizioso, frequentatore assiduo dei salotti mondani, intellettuale dandy ed eccessivo, chiassoso e irriverente, amico di Andy Warhol e Marilyn Monroe, di Gloria Vanderbilt ed Elisabeth Taylor. Parole curiose – lo scrivere di fatti e dunque l’indagare, il confrontarsi faccia a faccia con la verità, sempre talmente nitida e insieme misteriosa – oppure forse no.

No, a conoscerlo meglio.

Ha trentacinque anni, quel limpido mattino di novembre, e un passato difficile, nascosto dalla musica e dai cocktail, partecipando a feste, scrivendo articoli e pubblicando libri, viaggiando per il mondo. Una vita segreta, segnata da feroce solitudine, dal senso di abbandono.

È stato un ragazzino “strambo”, dai modi effemminati, cresciuto da cugine della madre a Monroeville, Alabama, accanto alla casa della famiglia Lee. Una vocina stridula e un’immaginazione portentosa, da quando era bambino. Il precoce talento del raccontare storie, fin da allora, suo unico rifugio insieme all’amicizia della piccola Nelle, ultimogenita dei Lee. Tutta la vita marcata da quegli anni, dall’amore negato di sua madre – un amore cercato altrove, in fondo inutilmente – morta a nemmeno cinquant’anni, lontana e imprevedibile, a tratti gentile e poi crudele con quel suo figlio strambo.

Basta pensare a questo: una volta cresciuta, e dopo avere pubblicato Il buio oltre la siepe, Nelle Harper Lee – amica per la vita sin dai tempi di Monroeville, Alabama – dirà a un giornalista: “Truman e io siamo legati dalla stessa angoscia”.

We are bound by a common anguish.

Ecco che cosa c’è davvero su quella poltrona, oppure quel divano, in quell’appartamento. Ecco che cosa si nasconde sotto quella vestaglia. Ed ecco il fiume carsico – l’angoscia, tenuta ben nascosta – che sta portando Truman verso le cose che lo aspettano, come se si trattasse di un appuntamento. Ecco ciò che negli anni ha preso forma, e che quella mattina è sul punto di travolgerlo.

Con questi suoi tormenti, placati dal rumore di New York – a 1594 miglia da “laggiù” – Truman è a pagina 38.

La luce del giorno illumina le tazze sul tavolo da pranzo, illumina tappeti e librerie. Qualche secondo ancora. Alza lo sguardo per un attimo, è possibile, lo abbassa nuovamente.

Pagina 39. Nascosto in mezzo al foglio c’è un breve resoconto – soltanto una colonna – datato 15 novembre, intitolato Uccisi contadino e la sua famiglia.

Comincia così:

Oggi un facoltoso coltivatore di grano, sua moglie e i loro due figli sono stati trovati morti nella loro casa. Dopo essere stati legati e imbavagliati, i poveretti sono stati uccisi a colpi di carabina.

Truman rilegge il trafiletto, ancora e ancora, mentre la luce scivola per la stanza, lentamente. Poi posa il giornale.

There is no place like home.

Be’, non è stato così per i poveri Clutter, laggiù, sulle pianure del Kansas, dove abitava Dorothy.

Anche se in un modo diverso, certo, neppure per Truman è mai stato così. Guarda che cosa può succedere a una famiglia, in un posto che sembrava tranquillo. Guarda la vita che cosa ti riserva, a volte. Guarda la verità, guardala dritta in faccia. Eccola qui, la vedi? Riesci a vederla, mentre percorre quel vialetto, nel cuore della notte, avvicinandosi alla casa addormentata?

È una mattina tersa, quella del 16 novembre, nel villaggio di Holcomb: una mattina in puro stile Midwest, dai cieli sconfinati, perfettamente azzurri, ma tutto è già cambiato.

Le miglia che separano quei due punti del mondo – Holcomb e New York: ventiquattr’ore di viaggio in automobile – stanno per diventare un soffio che cambierà la vita di quell’uomo, che adesso si sta alzando, un soffio che cambierà la storia della letteratura.

(Mentre scrivevo quello che avete appena letto, continuavo a risentire sempre le stesse parole, pronunciate quasi sottovoce, con grande dolcezza: “Goodnight, see you tomorrow. Goodnight, see you tomorrow. Tomorrow”.)

Elena Varvello