Sulle High Plains, ai piedi delle Rocky Mountains, soffia quasi costantemente il vento, un vento che proviene da ovest. Provate a immaginarlo: riuscite a sentirlo? Soffia sulle distese d’erba sconfinate, sui pascoli, sulle mandrie e sulle fattorie, sulle pareti delle stalle e sui granai, sulle pale dei mulini, sulle cisterne d’acqua. S’infila tra gli steccati e i recinti. Soffia su piccole città isolate, corre su strade dritte come lunghissimi righelli abbandonati a terra che arrivano a lambire l’orizzonte. Eppure sulle High Plains, nonostante quei righelli, niente pare davvero misurabile. Il mondo, là, sembra non essere altro che una base d’appoggio per il cielo, un piedistallo polveroso. Come dice il fotografo Michael Forsberg, non potrete mai spalancare abbastanza le braccia, su quelle pianure (al margine delle più vaste Great Plains), per contenere tutto ciò che vedete. Terra e cielo. E, come vi dicevo, il vento.

Dove la cittadina finiva, Lyle contemplava i campi illuminati dalla luna e spazzati dal vento, e poi tornava indietro nelle zone abitate.
Benedizione, Kent Haruf

Terra e cielo senza fine. Campi e pascoli, e dunque bestiame. Automobili, oppure pickup, che viaggiano lungo quei lunghissimi righelli abbandonati a terra. Dentro gli abitacoli potremmo immaginare in sottofondo brani di musica country o brani di Bluegrass: chitarre, mandolini, banjo, contrabbassi e voci roche. Fuori dagli abitacoli, l’erba, secca la maggior parte del tempo, battuta dal vento.

Il vento, già. Non so voi, ma io l’ho sempre detestato. Ricordo un fine settimana d’autunno a Parigi, ormai molti anni fa, e un viaggio più recente a Lisbona, in entrambi stordita da un vento che sembrava perenne. Nessuna protezione, nessun riparo. Attraversare un ponte per esempio, quando tira vento, per me è un’esperienza sgradevole. Nonostante questo – ed ecco un piccolo, personale paradosso – nelle mie storie tira quasi sempre vento; ce n’è così tanto, in certi passaggi, che spesso devono ricordarmi di placarlo.

Una valle immaginaria del Piemonte può assomigliare almeno in parte agli altipiani a est del Colorado. O c’è qualcosa nel vento che mi ricorda la nostra condizione umana, il nostro essere piccoli (ciascuno di noi, nessuno escluso), la nostra precarietà? È per questa ragione che, pur detestandolo, continuo a scriverne?

Uscirono da Denver, allontanandosi dalle montagne per tornare sugli altopiani: artemisia e yucca e gramigna ed erba del bisonte nei pascoli, grano e mais nei campi.
Benedizione, Kent Haruf

È sulle High Plains, su quegli altopiani a est delle Rocky Mountains – il cosiddetto Fronte Range – è esattamente in quella parte del Colorado, lo Stato dalla forma di un rettangolo e dal nome che deriva dalle sfumature rossastre dell’acqua, nei periodi di piena, di uno dei suoi fiumi più importanti – il Colorado, appunto – è lì che Haruf, figlio di un pastore metodista e di un’insegnante, è nato, nella città di Pueblo, che oggi conta più di 100.000 abitanti.

Parrebbe di trovarsi in Messico, a sentire il nome Pueblo. Ma il Colorado confina col New Mexico, in effetti: vi imbattereste, andandovene in giro, soprattutto nel sud dello Stato, in città come Antonito, Alamosa, Salida, Del Norte, Trinidad.

Colorado: terra di Spagnoli, da principio.

È un paesaggio, quello degli altopiani, battuto dal vento e magnificamente sconfinato, che Haruf non si è mai lasciato alle spalle, pur avendo viaggiato e vissuto e lavorato altrove come bracciante in un allevamento di polli, muratore, bibliotecario, infermiere, insegnante. Un posto del mondo che la maggior parte della gente non fa che attraversare, filando via veloce sulle strade statali o interstatali, negli abitacoli delle automobili, piacevolmente caldi d’inverno e freschi d’estate, andando e venendo da Denver oppure viaggiando verso le montagne, verso stazioni sciistiche rinomate come Boulder, o i parchi naturali.

Un’altra delle terre di nessuno, verrebbe da pensare. Artemisia, yucca, gramigna ed erba del bisonte. Pochi alberi. Grano e mais. Allevatori e contadini. Piccole città, ogni tanto, come scacchiere nella polvere. Chiese, diners e drugstores, negozi di ferramenta, banche e uffici postali, roulotte, case con piccoli giardini. Uomini con i loro cappelli, con camicie a scacchi e stivali, giacconi imbottiti o giubbotti di jeans, donne dagli abiti comodi e ragazzini in bicicletta che, nell’alba, sulle vie a scacchiera consegnano i giornali: si fermano un istante, tutti loro (li immagino così) per dare un’occhiata a una di quelle auto di passaggio, all’ombra di qualche sconosciuto nascosto dietro i finestrini, a quelle scie di polvere nel vento.

Si fermano – chissà a che cosa pensano – poi ricominciano a fare quello che stavano facendo, come se niente fosse. Una di quelle donne porta un sacchetto della spesa, sta andando verso casa. Un ragazzino lancia su un vialetto una copia del giornale locale. Un uomo sale sul suo pickup per ritornare alla sua fattoria: si toglie il cappello, lo posa sul sedile del passeggero, accende l’autoradio, abbassa il finestrino e allora si sente della musica country o del Bluegrass. Pochi minuti dopo vediamo quel pickup viaggiare nel vento: oltre il parabrezza impolverato, tutto intorno, ci sono le High Plains, il mondo che quell’uomo conosce. E c’è la vastità del cielo.

È in questa terra di nessuno, che non è affatto di nessuno, che Haruf ha immaginato e costruito, parola su parola, la sua Holt, una delle più belle città invisibili del mondo, una delle più care a migliaia e migliaia di lettori.

È inutile cercarla: non la si troverà. È come la Macondo di Marquez o la contea dal nome impronunciabile di Yoknapatawpha di Faulkner, come la Crosby di Elizabeth Strout. È una città di lettere, di spazi bianchi, di capoversi e di punteggiatura, ma più vera del vero, più reale del reale.

E comunque perché cercarla, se ce l’abbiamo già? È nelle pagine di tutti i romanzi di Haruf, e prima ancora era nella sua mente, nella sua immaginazione.

“È il posto che conosco meglio”, ha detto Haruf riguardo alle High Plains. Semplicemente questo: scrivere di ciò che si conosce (che poi non è semplice per niente, se ci pensate bene, perché cosa significa “conoscere”? È uno dei grandi misteri della scrittura, della letteratura). Erano il posto e le persone – quegli uomini, quei ragazzini e quelle donne, tradotti e distillati nei suoi bellissimi romanzi – che conosceva meglio, che aveva guardato a lungo, che aveva ascoltato molto attentamente. Tutte le loro storie.

Persone comuni, con le loro vite, le loro faccende da sbrigare, i loro piccoli e grandi dolori, i loro sogni, le cose e gli affetti perduti. Persone comuni all’apparenza, però, soltanto all’apparenza. Perché, diciamoci la verità, quale dei personaggi di Haruf può essere sul serio definito comune? E, più in generale, chi di noi lo è? Non siamo tutti unici, e quindi irripetibili, e non lo sono loro?

Quando giungemmo a Holt, tutte le case erano buie e i grandi globi appesi agli incroci di Main Street erano spenti. Non vedevo nulla che si muovesse. Anche la stazione era deserta; Lyman avrebbe dovuto fare il biglietto a bordo del treno. Mio padre fermò il furgone accanto al marciapiede lastricato del binario e, sebbene fossimo in anticipo di almeno un’ora, Lyman uscì con la valigia sottobraccio e si fermò lì, rivolto a est. Mio padre e io restammo sul furgone con il motore e il riscaldamento accesi, a guardarlo aspettare. Mentre lo osservavamo, papà disse: Ecco un momento storico che non comparirà nei libri di storia.
Vincoli, Kent Haruf

Fermiamoci anche noi, per il momento.

Fermiamo l’automobile che avrebbe dovuto portarci altrove, a Denver o verso le montagne. Parcheggiamola davanti a una chiesa o a un drugstore, davanti alla stazione o al negozio di ferramenta, oltre il cartello immaginario che indica la città invisibile eppure visibilissima di Holt. O magari fermiamoci accanto a una fattoria, di fianco a uno steccato o a una fila di alberi frangivento. Abbandoniamo il fresco o il caldo del nostro abitacolo. Siamo in Colorado, signore e signori, siamo nel cuore delle High Plains.

Stiamo per diventare gente degli altipiani.

Perciò scendiamo nella luce o nel buio della contea di Holt. Tira un gran vento che proviene da ovest. Pare che non ci sia nessuno in giro, però non è così, in realtà non siamo soli. Qualcuno, appena uscito dal drugstore o dalla chiesa o dalla fattoria, oppure un ragazzino in sella alla sua bici, ci sta venendo incontro. Alza una mano in segno di saluto, ci chiederà chi siamo e ci dirà chi è.

Lo vedete anche voi?

Piccola nota a margine di oggi.

Tutti i romanzi di Kent Haruf sono stati pubblicati da NN Editore. Continuerò a parlarvi di lui e di quei libri la prossima settimana: per uno scrittore che amo così tanto, uno dei miei maestri “involontari”, mi servono almeno due tappe. Nel frattempo, nella mia valle immaginaria, quella in cui una parte di me continua ad abitare, tira ancora e sempre il vento. Riesco a sentirlo, forte e chiaro, così come qualche minuto fa, in una pausa dalla scrittura, stavo riascoltando un pezzo di Bluegrass.

Elena Varvello