Un libraio, potremmo definirlo un alter ego dell’autore, avvolto in un’aura di tabacco, osserva le decine di persone entrare e uscire dalla sua libreria, ne studia i comportamenti, ha imparato a fare una rassegna mentale delle domande che porranno, dei commenti che faranno. Un gruppo di lettura a poca distanza si incontra tutti i lunedì per parlare della storia che ognuno dei partecipanti sta scrivendo. Una sera uno di loro porta con sé frammenti di libri ritrovati, pagine che sono sopravvissute ad altre strappate, come la memoria quando non vuole ricordare. Comincia così una lettura condivisa, un interrogarsi collettivo su chi sia l’autore e cosa manchi a quelle storie. La letteratura delle macerie inizia qui.

Hamburg, edito da Il Saggiatore, è il raffinato romanzo di Marco Lupo in un esordio che non sembra tale, vista la consapevolezza narrativa, la profonda conoscenza letteraria dell’autore. In queste pagine abilmente dosate: Umana empatia, Narrazione storica, Divagazione colta.

La prosa, lucida e senza sbavature, prende in prestito l’architettura collaudata del racconto nel racconto, dove la narrazione di secondo grado si erge a protagonista, come protagonista è stata la seconda guerra mondiale del secolo breve. I brani dei libri ritrovati diventano la cornice madre entro la quale si muovono uomini, donne e bambini di quel tratto di novecento. I confini non sono rigidamente definiti ma seguono piuttosto le alternanze di cambi di persona, di piani di azione, di voci narranti, senza l’intento prioritario di ricostruire una storia unica e sola. Affiora così una coralità di voci in grado di restituire al lettore un pezzettino di vicenda, un tassello da incastrare a sua volta nel collage impietoso della guerra. Che con la sua brutale universalità e dirompenza investe le vite di tutti.

Le immagini sapientemente selezionate dagli archivi storici e riportate nel testo vivono nel romanzo senza risultare didascaliche ma evocative. L’ambientazione per molti versi classica della seconda guerra mondiale viene maneggiata con sapiente accortezza, riuscendo a divenire uno scorrere inedito rispetto alla prolifica produzione di storie ambientate in quegli anni.

Come pagine di un diario immaginato da diversi autori, come scatti fotografici da differenti angolazioni, questo libro rapisce. L’occhio dell’ufficiale britannico che lancia le sue bombe da duemila metri di quota; quello di Hans Erich Nossack, scrittore tedesco che nel 1943 ripara con sua moglie fuori dalla città di Amburgo per sfuggire alla pioggia di bombe battenti su un’umanità che la guerra vorrebbe cancellare; quello ancora che entra nelle stanze del potere dove vengono pianificate a tavolino le prossime mosse sullo scacchiere bellico. Le pupille ancora di una madre e del suo bambino, costretti al suono dei bombardamenti nello spazio ridotto di un rifugio insieme ad altre persone che assolvono la funzione protettrice di un padre assente perché imprigionato, perché deportato, perché schierato apertamente contro il nazismo.

Letteratura delle macerie. Quelle che restano come le pagine di un libro rinvenuto solo per una parte, metafora dell’annebbiamento della cultura, richiamo alle tristi sorti dei libri in quegli anni bui. Libri che diventano protagonisti di un sentire condiviso e autori che vengono citati puntuali nella coerenza di divagazioni mai superflue.

Da Martin Walser, scrittore d’ispirazione kafkiana poi impegnato in romanzi di critica sociale, a Blaise Cendrars che esordisce con poesie d’avanguardia abbracciando in seguito le armi della prima guerra mondiale, passando per Winfried Sebald ispirazione di Lupo, uno dei maggiori scrittori tedeschi del novecento, la cui opera indaga la memoria personale e collettiva nella difficoltà di molti intellettuali di fare i conti con il passato recente di una nazione che ha segnato la nascita e l’affermazione del nazionalsocialismo.

Divagazione colta dicevamo.

La sensazione che si ha leggendo questo libro, e parliamo proprio di percezione più che di critica, è che i personaggi con in quali si apre la storia, il libraio avveduto, il gruppo di lettura e l’atmosfera invernale nella quale si muovono, sfumino i loro contorni per consentire al nitore delle storie dei libri ritrovati di emergere con la loro forza, come tante istantanee da un passato che si fa presente. Che affiora nella sua pietas, nella sua angoscia, nella sua fame.

Il bambino e la madre ne hanno viste a centinaia di donne che prendono le mani dei soldati e che li portano in luoghi asciutti e isolati. La madre si chiede spesso quando toccherà a lei. Dovrà piegarsi a questa pratica comune per evitare che il bambino conosca la fame? Potrà contare su qualcuno, prima di vendersi per una confettura? Quando suo figlio piangerà per fame, potrà lasciarlo piangere?

Il bravissimo Lupo cita Elias Canetti in uno dei suoi aforismi dedicati a Marie Curie, “Io temo le stelle che non conosco”, riferendosi allo scrittore Nossack quando valuta il rischio corso decidendo di restare a una manciata di chilometri dalla sua città invece di lasciare la Germania, come avevano fatto molti intellettuali quando avevano capito che la fine stava per abbattersi su di loro. Su tutti quanti.

E siamo felici che invece Lupo abbia deciso di scrutarlo quel cielo farsi incandescente per le bombe, quei colpi di cannone deflagrarsi producendo tonfi sordi e primordiali.

Che lo abbia fatto con la sua sensibilità regalandoci questo testo prezioso, lungimirante, colto. Emozionante.

Angela Vecchione