Vive a Budapest da qualche anno, ma è irpino di origine, classe 1984, Federico Preziosi è autore di Variazione Madre (Controluna – Lepisma Floema, a cura di Giuseppe Cerbino) una raccolta poetica in cui si immedesima nel corpo della donna emulando un linguaggio femminile. Le sue poesie sono state pubblicate su vari numeri de La bottega della poesia de La Repubblica, apprezzate da poeti e critici come Maurizio Cucchi, Eugenio Lucrezi, Gilda Policastro e Vittorino Curci.
L’ho intervistato per parlare del femminile nella scrittura poetica.
Com’è nata l’idea di immedesimarti nella donna?
Sono sempre stato attratto dalla scrittura femminile, ma non saprei spiegarne il perché. C’è forse un modo, un mistero che mi intriga molto e al tempo stesso mi sfugge. Sarà la forza della scoperta e della coscienza del sé femminile, così diverso da quello maschile, ad avere un impatto così forte sulle mie suggestioni. Inoltre sento nell’espressione del linguaggio femminile anche un dolore che definirei atavico. Quando mi sono avvicinato alla poesia ho trovato nei versi di Amelia Rosselli una forza evocativa e musicale dirompente. Le sue parole mi scavavano e non ne capivo la ragione: era energia pura e disperata che mi si muoveva dentro. Forse quanto detto non basta a spiegare quale fosse la mia esigenza. Rifletto spesso sul mio percorso e penso che abbia condotto un’indagine personale su un linguaggio che a me e a tutti gli esseri umani di sesso maschile non può totalmente appartenere per ragioni biologiche. Non ne faccio una questione di orientamento sessuale e nemmeno politica, anche se Variazione Madre potrebbe suggerire apparentemente il contrario. Ho pensato semplicemente che immedesimarmi, provare a capire il desiderio entrando nel corpo della donna, fosse l’unico tentativo possibile per impossessarsi del sentire e di conseguenza del linguaggio femminile.
Perché questo desiderio di esprimerti al femminile?
Adoro gli opposti, i contrari e le contraddizioni. Credo che il senso profondo della nostra umanità risieda nel mezzo della polarizzazione. Essere donna per un uomo significa provare a comprendere le differenze, le scelte, intercettare ciò che sono i desideri dell’altro sesso contestualizzandoli all’interno della nostra cultura occidentale, tecnologica e globalizzata. Fare proprie le istanze degli altri significa riconoscerle e quindi umanizzarle. Chi si aspetta nella mia poesia l’immagine di donna angelicata o di mamma coraggio non troverà in questa introspezione nulla di tutto questo: le donne che ho rappresentato convivono con i propri demoni, sono tutt’altro che modelli rassicuranti se proviamo a calarci nella loro interiorità. Ho provato a impossessarmi delle fragilità prima che della forza: quest’ultima viene poi spesso associata erroneamente al carrierismo, un’esigenza che risponde maggiormente a criteri economici e consumistici spesso eludendo la questione identitaria. È la contingenza che stabilisce la forza, non il modello. La donna oggi può essere molto più “maschio” di un uomo, adotta comportamenti analoghi nella gestione aziendale, politica e del potere in generale. Siamo sicuri che sia questa la vera forza? Dove resterà in tutto questo la femminilità oggi, ammesso che ce ne sia bisogno? Allora penso che la prima cosa che abbia inconsciamente fatto è rivolgermi al corpo e al desiderio, credo che questi siano imprescindibili per calarsi in qualunque immedesimazione nello specifico. Ho provato a dare un’immagine della differenza, a valorizzare la passività e poi mostrare anche i risvolti feroci e tragici delle conseguenze dei modelli culturali sulla donna. In questo percorso c’è tanta sensualità e amore nel linguaggio che ho emulato, ma anche un dolore molto profondo, quest’ultimo forse un elemento maggiormente culturale che biologico.
Come hai reso il linguaggio femminile, quale tipo di lessico hai usato?
Sicuramente ho adottato un lessico corporale: ventre, mani, labbra, occhi sono alcuni dei termini più ricorrenti. In particolare ventre credo sia importante perché sintetizza l’atto sessuale, tocca l’amore, il dolore, la cura, ma soprattutto la creazione. La madre è per me un punto di origine, e in questo contesto emergono tutti gli elementi affini alla sensorialità tattile, visiva e olfattiva. Naturalmente non esiste un linguaggio in assenza di contesti e oggetti che sono, volenti o nolenti, associati alla femminilità. Prendiamo, per esempio, il mascara: “Sulle ciglia di mascara / ci si fa del male nella pratica, / nel dover migliorare”. Ho sempre trovato affascinante l’atto della preparazione, il riporre attese e incertezze in un rituale, per alcune, quotidiano. Il trucco nasconde e svela al tempo stesso, come le maschere che indossiamo, in assenza delle quali non compiremmo determinate azioni. Cosa possiamo conquistare con un volto nuovo? Forse un coraggio, una sicurezza o un’attitudine. Prendiamo dimestichezza con pregi e difetti e li soppesiamo, ma fino a dove restiamo esattamente noi stessi? O forse tendiamo ad accentuare un lato piuttosto che un altro del nostro molteplice? Questo vale per le donne, ma anche per gli uomini, attraverso oggetti che valorizzino quelle caratteristiche accettate dalla società in cui viviamo.
Prima hai parlato di musicalità: ci può essere una sonorità oltre che un pensiero di parole che sia più riconoscibile nel femminile che nel maschile?
La musicalità di un verso è determinata dai ritmi, dalle ripetizioni e dagli accenti delle parole. Stando a queste premesse c’è sonorità in entrambe le sfere di riferimento. Più complicata appare l’espressione che rappresenta, invece, un come, ovvero una disposizione delle parole, una semantica, un’allusione o addirittura un’evocazione. Io credo che un lessico femminile, se possiamo dire così, fatto di parole ricorrenti sia uno studio da affidare ai linguisti perché soltanto loro posseggono gli strumenti per poter determinare una cosa del genere. Immagino che una parola come, per esempio, ginecologo sia maggiormente ricorrente nella sfera femminile, non per una questione innata, ma per una ipotetica frequenza d’uso. Stessa cosa possiamo dire di termini che si identificano con oggetti specifici: un essere umano di sesso maschile, fosse anche un transessuale e presumibilmente dotato di una spiccata sensibilità femminile, difficilmente parlerebbe di assorbenti e del loro utilizzo, tuttavia nei suoi discorsi potrebbero ricorrere scarpe coi tacchi, calze e smalto. Credo poi ci sia, infine, un linguaggio legato al corpo in senso sessuale, identitario e creativo, anche perché la nostra cultura in passato ha demonizzato lo stesso corpo, il nostro tramite col mondo, mentre oggi si vive l’ambivalenza di utilizzare il corpo in senso consumistico, denigrandolo, successivamente, sul piano morale. Potrei sbagliarmi, naturalmente, ma ho l’impressione che sia sempre il contesto e la frequenza a determinare il tutto, la poesia può mediare tra cultura e sensibilità personale fornendo una sonorità legata a una determinata immagine. Ciò che non può fare è stabilire una sonorità in senso assoluto sebbene anch’io mi sia posto la questione di una “sonorità femminile” da rendere attraverso i versi. In generale, per quanto distanti si possa essere, l’immedesimazione resta sempre uno strumento di conoscenza di cui non possiamo fare a meno. Se capire è impossibile, sentire è necessario.
Intervista a cura di Antonia Frascione
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