Ci sono libri che non smetterai di leggere anche quando avrai finito la storia, girato l’ultima pagina e arrivato al punto che sancisce la fine.

Non si spengono perché quando la voce autoriale è distintiva e riconoscibile tra mille non te la scrolli di dosso. Capita così quando leggi Aramburu. Mi era successo già con Patria, Premio Strega Europeo 2018, ed è riaccaduto anche ora che ho appena terminato I rondoni, sua ultima fatica letteraria edita da Guanda, tradotto dall’attentissimo Bruno Arpaia. Uscito lo scorso ottobre è stato lì a fissarmi per qualche mese prima che mi decidessi di affrontarlo.

700 pagine, 12 mesi, 365 giorni scritti come un diario, quello di un uomo che ha scelto di accomiatarsi dal mondo perché stufo di continuare a vivere nella sua inutilità, nella sua misera ipocrisia.

Toni è un insegnante di filosofia di cinquantacinque anni, alle spalle un matrimonio fallito, un figlio che ha infranto i sogni di una pregevole discendenza, una famiglia d’origine di stampo patriarcale che ha inciso molto sul suo modo di relazionarsi all’altro, un padre che si alcolizzava elargendo violenza, una madre che di nascosto sputava nella minestra del marito e un fratello, Raulito, con il quale non ha mai saputo stabilire un legame vero.

Decide che quindi può andar bene così e insieme ad un amico da lui ribattezzato Bellagamba per aver perso un piede negli attentati alla stazione di Atocha, decide di darsi una data di scadenza, di fissare un momento per porre fine ad un’esistenza da uomo pianura, senza pendici di montagne eroiche da scalare, senza andamenti ondulatori di formidabili avventure.

Inizia così la cronaca personale raccontata attraverso ricordi, aneddoti, pensieri intimi, considerazioni politiche a mezzo di una voce disincantata che lascia ben poco alla speranza, eppure capace di venir fuori con una leggerezza non priva di ironia.

Forse l’odio che ho nutrito nel corso della mia vita non è stato di buona qualità. Ho odiato abbastanza, ma a tratti, spesso con pigrizia; e anche, diciamo la verità, con piacere.”

Quell’odio che palesa con una certa scioltezza non lesina ad essere indirizzato ai suoi affetti più cari. La sua famiglia, suo figlio Nikita.

“Come ha affermato un poeta che non conosci né conoscerai, ti ho odiato con affetto, ti ho amato con odio e mi sei stato, insomma, indifferente; tutto allo stesso tempo, come scintille uscite all’improvviso da un cannone, alcune di qui, altre di là, confuse in un completo disordine emotivo”.

Toni programma con pazienza benedettina la sua dipartita, disfacendosi man mano di tutto ciò che ormai ritiene superfluo, disseminando gli oggetti a lui appartenuti qua e là per la città, predisponendo i lasciti materiali al suo unico figlio, piazzando la sua adorata cagnolina Pepa all’amica Águeda che lo accompagnerà fino alla fine delle pagine.

I giorni che lo separano dal 31 luglio 2018, data prescelta per il suicidio, sono scanditi da un inanellamento di emozioni, di piccoli momenti di felicità, di enormi dosi di rancore, di relazioni scomode e avvicendamenti sentimentali di quella che poteva essere una felicità domestica e che non lo è stata. Vive le sue giornate fatte di scelte banali, che non trasudano grandi ideali, cose per le quali valga la pena sacrificare una decisione così necessaria come quella di ammazzarsi. Come scriveva Albert Camus, ripreso dagli appunti del protagonista “C’è soltanto un problema filosofico davvero serio: il suicidio.”

La liturgia che riserva alla realizzazione di quest’ultimo scopo è intervallata da riflessioni puntuali sulla vita, da una lucida schiettezza intellettuale sull’agire della maggior parte degli uomini.

“Sono convinto che l’attività intellettuale della maggior parte degli esseri umani si basi sull’omissione della loro natura transitoria. Anch’io non faccio altro ogni giorno in classe, per dissimulazione e per perseverare nella salutare abitudine di percepire uno stipendio mensile, nascondendo agli alunni ciò che penso: che nasciamo per caso, viviamo in funzione di una serie di leggi fisico-chimiche e prima o poi moriremo tutti, tu, tu e tu, e questo non lo cambiano né lo impediscono la religione, la filosofia, le convinzioni politiche, gli spettacoli, l’arte o il piacere. Non ci sono arcani, ragazzi; soltanto ignoranza e paura. (…) Onestamente, dovrei nascondermi per la vergogna ogni volta che in classe sparo quelle fandonie chiamate metafisica, anima, trascendenza, mistero ontologico, ente superiore…”

Nel momento in cui matura la sua scelta, consapevolmente e senza rimpianti, riflette sulla vita dei rondoni, sulla loro libertà e sui loro voli infaticabili. Su una vita spesa senza passati da rielaborare, ricordi dai quali doversi affrancare. E soprattutto senza solitudine.

Questo libro è proprio come loro, e come è stato definito da El País – un romanzo magistrale, che volerà alto e lontano.

Angela Vecchione

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