Ci sono classici che di tanto in tanto tendiamo a tirare giù dallo scaffale e rispolverare, e ci sono libri recenti ma non recentissimi che hanno tutto il potenziale per diventare classici, proprio per la loro “rispolverabilità”. A mio parere, uno di questi è il picture book, anche chiamato silent book (letteralmente, libro senza parole) L’approdo, dell’illustratore e scrittore australiano Shaun Tan, pubblicato per la prima volta nel 2008 in Italia. Esistono esperienze difficili da raccontare, e l’universalità del silent book sta proprio nel rappresentare una data storia solo tramite immagini: un libro muto, senza parole, che però è in grado di superare tanto i limiti linguistici quanto quelli anagrafici dei lettori. In sintesi, un libro per tutti e per tutte le età.
L’approdo è una storia di straniamento, e affronta l’arrivo di un migrante in un mondo per certi versi molto simile alla New York di inizio Ventesimo secolo, in cui la lingua e i meccanismi del luogo stesso sono un’incognita. I cartelli sono un’accozzaglia di simboli dall’aspetto alieno, gli animali che girano a piede libero per le vie della città paiono usciti dai sogni di un artista surrealista, il cibo ha una forma strana e decisamente poco invitante, e le pratiche quotidiane più comuni sono fonte di frustrazione per il protagonista. L’estraniazione coglie anche il lettore, che come il migrante si ritrova privo di punti di riferimento, si riempie gli occhi di ogni assurdità, e impara a mano a mano ad affrontare la nuova realtà che ha davanti.
Le scelte tecniche per creare questa storia senza parole sono senza dubbio la parte più notevole dell’opera, che rendono un racconto comune a molti, già sentito e già narrato, e costantemente sotto il nostro sguardo, un’esperienza che diventa nuova e condivisa. Le vignette, per i colori che vanno dal seppia al dorato al bianco e nero, e per i contorni sfumati, assomigliano a fotografie d’epoca, che sembrano saltare fuori da un vecchio album (come in effetti ricordano la copertina stessa e le pagine dal colore ingiallito, piene di macchie e segni di usura). E sono proprio le numerose immagini delle foto dei passaporti riproposte dall’autore in apertura e chiusura del libro che si basano su un consistente numero di fotografie prese a Ellis Island, New York, tra il 1892 e il 1954. Infatti, per creare L’approdo, Shaun Tan non parte solamente dalla sua vicenda personale in quanto figlio di genitori malesi emigrati in Australia Occidentale nei primi anni Sessanta, ma fa estensive ricerche sulla storia dell’immigrazione statunitense e australiana, e nasconde riferimenti visivi per tutto il volume.
L’opera mantiene un tono forse troppo ottimista, che può essere colto in maniera diffidente dall’occhio disilluso, soprattutto dato il momento storico che stiamo vivendo. L’innocente fiducia con cui Tan affronta l’esperienza del protagonista si consolida nel corso dei sei capitoli, in cui il migrante trova aiuto e senso di appartenenza grazie a persone che prima di lui hanno affrontato il suo stesso sradicamento per i motivi più disparati. Gente che, come lui, sono partite alla ricerca di un posto migliore, lontano da quello che si intuisce essere l’inizio di un periodo di turbolenze politiche nei rispettivi Paesi. Una sorta di sogno americano, forse più affine alla produzione letteraria incentrata sulle storie di emigrazione di inizio Novecento dall’Europa al Nuovo Mondo, che alla situazione odierna.
Ma non è questo ciò a cui mira il libro, il cui tema centrale non è puntare il dito o fare un commentario politico, ma semplicemente creare un’esperienza di empatia condivisa tra il lettore e la Storia del Migrante (e non di un migrante in particolare). L’eloquenza visiva di Tan è impeccabile nel raccontare questa storia, ricreando un mondo fantastico ma dai tratti familiari, straniante ma dai valori portanti comuni: in primis, l’aiuto del prossimo. È così che, tra le vie di questa città dalle forme bislacche che riempie immagini a tutta pagina, il migrante conosce altre storie come la sua, viene raggiunto dalla sua famiglia e si crea una nuova quotidianità, fino a diventare parte del nuovo mondo in cui è approdato e a chiamarlo finalmente Casa.
Fabia Brustia
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