Ricostruzione /
nell’attimo del respiro /
della dissacrante /
epidermica /
di un osservatore /
abbastanza bravo /
a camminare /
o /
del dolore dell’acqua /
nella decoerenza /
di una storia

Assume quasi l’identità poetica di un verso il titolo del nuovo romanzo di Simone Battig, edito da Castelvecchi Editore in uscita domani 17 ottobre e anticipato qui su exlibris20 in anteprima assoluta.
Un titolo dapronunciaretuttodunfiato, senza interruzione. Un tributo alla decoerenza quantistica, teoria secondo la quale l’interazione fra i sistemi quantistici e l’ambiente esterno determinerebbe la perdita della coerenza della funzione d’onda? Un omaggio dadaista nell’ottica di ricerca e sperimentalismo verso nuove forme espressive della narrazione? Se la parola dada, riferita al movimento nato a Zurigo nel 1916, non significa nulla, il titolo di questo romanzo è indicativo, e quindi significativo, di molte cose.

Prima di tutto della direzione, controcorrente, che l’autore adotta nel convertire tutte le regole auree impartite ai corsi di scrittura e di sceneggiatura. Una virata coraggiosa in grado di essere effettuata solo da chi ha una buona consapevolezza della propria solidità culturale e della propria capacità di narrare.

Iniziamo appunto dal titolo, che si presta a diverse congetture, ma non è nostro compito scandagliarle. La scelta del titolo, che probabilmente acquisirà l’abbreviazione di “Ricostruzione nell’attimo del respiro” sic et simpliciter per consentirne una più agevole memorizzazione, è ardua da spiegare. Difficile da ricordare, da capire, da citare. I titoli dei libri che leggiamo sono la loro anteprima, fanno accendere lampadine, generano ricordi, stuzzicano l’interesse (magari per il solito efficace ossimoro che tanto piace alle case editrici), non risultano mai eccessivamente lunghi come questo, eppure.

Poi c’è il prologo, che al suo interno contiene già una specie di epilogo dove Battig ci dice, nudo e crudo come chioserebbe il vecchio Bennet, che uno dei due protagonisti muore, eppure.

Una delle prime lezioni che abbiamo appreso nelle scuole di scrittura creativa è che solitamente un romanzo riuscito non inizia con il mattino o con la nascita del protagonista come avviene qui, eppure.

E i nomi, come sono importanti i nomi! Scelti con cura, evitando banalità o riferimenti identitari troppo evidenti. Il nostro protagonista, balzato sembra direttamente da una pagina a caso di uno sbiadito elenco telefonico si chiama Mario Bianchi, eppure.

Sembra che il nostro Battig lo abbia fatto apposta a sovvertire le “regole”. Eppure.

Ho avuto la fortuna e l’onore di leggere in anteprima questo meraviglioso romanzo. E mi sarei aspettata, visto il titolo, di sfogliare le pagine di una lettura ostica, dotata magari di un buon impianto narrativo ma calata in atmosfere poco confortevoli. Difficile.

E invece.

Si tratta di una storia semplice. Non facile, ma semplice, di quella semplicità con la quale i grandi autori immortalano le loro dinamiche interiori prima che queste diventino intrecci e trame.

C’è un ragazzo che si chiama Mario così arguto e geniale da incassare fin dalla prima infanzia l’identità di strano, per via del suo sguardo sul mondo, per le sue intuizioni, in grado di generare stupore. Il suo distacco dal resto dei coetanei e la resistenza a conformarsi agli altri fa da specchio allo smarrimento di suo zio Eugenio e al modo in cui quest’ultimo conduce la sua picaresca esistenza.

Lo sfondo delle loro vite singolari è la cittadina di Trevolto, luogo quasi magico, dove prendono forma eventi inspiegabili. Proprio nel paese, nelle anime che lo popolano, nelle osterie che lo abitano, il rapporto tra queste due menti, ai margini della storia, cercano di tracciare la propria parabola esistenziale inseguendo ognuno la sua verità.  

Battig ha una capacità affabulatoria unica, a mezzo di una voce narrante intima, autentica e potente.

La lettura scorre fluida, in un modo che dopo aver letto il titolo nessun lettore forse si aspetterebbe. Le citazioni dosate e sapienti, da Case infestate dagli spiriti di Zingaropoli a Il mulino di Amleto di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend non sono mai leziose e restano coerenti alla singola scena.

Toccanti le riflessioni sul presente, quelle che solo un osservatore abbastanza bravo a camminare riuscirebbe a cogliere in modo così puntuale.

Essere assenti allo spettacolo di noi stessi sembrava, in ogni cosa, un atto di non umanità e di irrilevanza sociale che ci escludeva dalla vita. Ma la nostra ossessiva presenza virtuale, davanti al computer sempre connesso, agli smart phone, alla televisione che si evolveva era invece il consegnare il nostro tempo e il nostro spazio ad un oblio di massa, la nostra coscienza ad un sistema piramidale di incoscienti.

Angela Vecchione