Uno degli assiomi su cui riposa la cultura occidentale è che la maturità sia un processo che avanza verso una fine, e che quando questa fine si avvicini la maturità arrivi al suo culmine. Come se la maturità sia la meta, e quella stanchezza che col tempo si insinua una forma di sapiente distacco. Accanto l’idea che le opere della maturità siano le migliori, l’apice artistico, condensato puro di una carriera e di una produzione artistica che progredisce, migliora, si affina. Degna finalmente di un Oscar, un Golden globe, un Davide di Donatello, o di qualsiasi altro riconoscimento, che arriva comunque oramai, secondo una scaletta già annunciata, la festa prima del necrologio, in una società che scimmiotta sempre più se stessa ed i suoi riti. “Il lascito”, the final Miyazaki, si legge un po’ ovunque. Ma non è sempre così, non sempre le opere degli anni giovanili sono immature e perfettibili, e le ultime le migliori. Non so se davvero Il ragazzo e l’airone sia il miglior film di Miyazaki, se meritasse davvero quel premio che gli sarebbe comunque stato assegnato. Dietro questa visione della “carriera” di un artista c’è solo la concezione teleologica del tempo e delle nostre esperienze. Basta abbandonare questo schema per ritrovare quella dispersione e ripetitività che in fondo ci caratterizza come il resto dei viventi. Ci caratterizza in ogni punto e segmento. Il moto della freccia è solo un’illusione recita uno dei famosi paradossi di Zenone, titolo di quella tela di Magritte che Miyazaki cita nell’enorme pietra-asteroide sospesa nel cielo de Il ragazzo e l’airone.

L’ultimo film di Miyazaki, tanto atteso, ci ha lavorato quasi per un decennio, sta in questa zona di dispersione, di saturazione (più che di levigazione), di confusione,  e ripetitività. Una zona senile in un corpo senile, in cui senile non vuol dire meno, però. Edward Said in Late Style scriveva: “The body, its health, its care, composition, functioning, and flourishing its illness and demise, belong to the order of nature”. Troppo schematica questa sempiterna distinzione tra corpo e anima, natura e stile, che invece, secondo Said, percorrerebbe un’altra strada, scisso, mai minorato, sempre possente. Credo piuttosto che anche lo stile, la narrazione invecchi assieme al corpo, sfiorisca, a volte si ammali. E soprattutto resti nello stesso punto, attorno o ci ritorni. Said indica alcune delle caratteristiche di quello che chiama late style: disarmonia, incongruenza, mancanza di serenità, senso della catastrofe, lirismo estremo, una produttività improduttiva che va contro, una forma di insubordinazione. Eppure non riesce a non qualificare positivamente questo stile tardo, come lo sbocco della maturità, come qualcosa di grandioso, di nuovo la fine aurea di un percorso.

Lo stile tardo di Miyazaki sta in qualche modo nel punto di inizio dell’esperienza artistica del disegnatore giapponese: la guerra sullo sfondo, la guerra che brucia edifici e vite, la notte di luglio del 1945 in cui bombardarono Utsonomiya, il villaggio dove Miyazaki si era trasferito con la famiglia, la supplica di quella donna, una madre con il suo bambino, che chiedeva aiuto, a cui il padre di Miyazaki non prestò soccorso, le scintille che sono le lucciole del film del suo maestro Takahata, gli aerei costruiti dal padre ingegnere, quel libro “E tu come vuoi vivere”, regalatogli dalla madre, morta quando Miyazaki era un ragazzino. Sta sul punto d’inizio, su quelle parole che tornano nel film: mamma, mamma e sul sapore del pane. O piuttosto sta nel ricordo di quelle parole, e di quel sapore. Sta in un tempo che la riflessione artistica ha salvato e reso immobile. “Quando sarai grande” è la dedica scritta dalla madre di Mahito, il ragazzo su quell’esemplare di E voi come vivrete?, libro del 1937 di Genzaburo Yoshino, tra le letture care di Miyazaki. Sta nel posto dell’inconscio, quello in cui viene risucchiato Mahito, il suo sé stesso bambino, dove si sedimentano i resti di ciò che abbiamo vissuto. Ma questa non vuole essere una critica (altrimenti ripeterei quello che già qualcuno ha detto all’indomani della visione del film), perché la saturazione del foglio, l’avventura a tratti caotica che affronta il ragazzino, la cripticità del messaggio o dei messaggi non sono sufficienti a rendere il film migliore o peggiore. Cosa che del resto non mi interessa.

Ad un certo punto della storia, verso la fine (e non vi rivelo niente perché forse sarò stata una delle ultime ad aver visto il film) il mondo in cui il ragazzino viaggia scortato da questo airone insopportabile e sinistro si disfa. Si disfa come un disegno che non è venuto bene, di cui il disegnatore vuole disfarsi strappandolo in due parti, si disfa come un disegno sfumato dall’acqua, implodendo, inghiottito da se stesso. L’acqua, il mare, il medio che domina in questo mondo altro in cui Mahito compie il suo viaggio iniziatico, si spacca, come nel famoso episodio biblico, ma non verso l’alto, piuttosto verso il basso, inghiottita da essa stessa. È un’immagine molto suggestiva, quasi primaria, come se sia stata una delle visioni da cui è nata la storia, una storia che faceva forse fatica ad essere raccontata, come se quella linea che doveva tenere assieme i frammenti, le visioni (linea necessaria in un film da grande distribuzione) sia venuta dopo, per forza, con un Miyazaki riluttante. Questa linea che resta comunque difficile da trovare assieme allo sviluppo del racconto. Come se non fosse interna al racconto. Come se un racconto debba raccontare per forza una sola storia. Del resto la sensibilità giapponese ha vocazione al frammento, a rendere invisibile la conoscenza, alla rarefazione dei contenuti.

Quando ho chiesto al padre di una amichetta di mia figlia, in una di quelle conversazioni frettolose in cui non sai bene di cosa parlare, se avessero visto il film, mi ha risposto di no, che Miyazaki è “troppo filosofico”. Filosofico in senso degradante, come un difetto, qualcosa di cui meglio non fidarsi, o di troppo complesso in questa visione insopportabile secondo la quale il bambini (assieme alle piante, agli animali, alle donne a volte, e agli anziani) farebbero parte di un mondo a sé, diverso, minorato, un decoro, immaturo rispetto alla maturità (ragione, anima) che sarebbe invece il segno distintivo dell’altro mondo quello degli uomini. Come se i bambini non fossero capaci di sentire, e di capire sentendo quella dimensione che quel padre ha chiamato filosofica. Come spiegargli che Miyazaki per tutta la vita si è messo proprio lì, dove la cultura traccia il solco, ingabbia torri per nascondere porte. Si è messo lì a cancellare la linea di demarcazione,  costruire porte di accesso (diminuta quella di Arietty, il tronco cavo di un albero in Totoro, una statuetta di porcellana fina in La collina dei papaveri, il castello errante, il tunnel di Spirited Away, la torre del ragazzo e l’airone). Ad unire i due mondi. Filosofico allora sta per fantastico.

Questa volta però, l’altro mondo che il ragazzo visita in cerca della madre, non resterà intero, abbandonato o ridotto a quella piccola brace che è Calcifer, a vivere accanto, in un’altra dimensione. Maruku, sua madre bambina e Natsuko, la zia, che il padre ha sposato in seconde  nozze e che aspetta un bambino (anche il padre di Miyazaki si risposò con una zia del disegnatore), attraversano in tempo le porte spazio-temporali per ritornare ognuno nel suo mondo “reale” eppure parallelo, prima che il mondo ultraterreno che hanno appena visitato imploda. Stavolta tutto sembra davvero perduto ma non è così. In tasca il ragazzo ha comunque una piccola pietra un blocco di costruzione, bianco, una forma geometrica, la forma di un ricordo, che potrebbe sbiadire. Tutto ciò che  che resta della costruzione del prozio, il signore della pietra, e del nuovo mondo che è comunque imperfetto, troppo simile a quello di sopra, come un’allegoria del nostro mondo, del mondo di sopra, dove le cose reali, che  veleggiano a gonfie vele sull’orizzonte, sono solo spettri e gli uccelli hanno disimparato a volare, e si nutrono di carne umana e di quelle animelle che sono i wara-wara, comunque instabile (l’equilibrio della torre a cui ogni giorno il prozio dedica i suoi sforzi, sta per crollare), comunque intrappolato tra un aldilà ulteriore e la realtà. Anche le pietre di questo mondo altro sono diventate malvagie, sono tombali, per questo Mahito le rifiuta. Anche i tredici blocchi puri che il prozio vorrebbe lasciargli, Mahito li rifiuta, rifiuta la costruzione, rifiuta di diventare signore, costruttore onnipotente. E si libera alla vita.

In quella famosa opera di John Everett Millais, Ophelia, ogni fiore che avvolge il corpo di Ofelia trasportato dalla corrente ha un significato preciso. Ed è stato usato dal pittore con quel significato, a significare qualcosa, a raccontare due volte la storia di quel corpo, a fargli eco, il salice l’abbandono, l’ortica il dolore, la viola del pensiero l’amore disilluso, la violetta la fedeltà, e soprattutto il papavero, la morte. In una specie di soliloquio, in cui la natura, l’altro che ci circonda resta inanimato, uno specchio, un foglio bianco. La critica ha esasperato la simbologia di quest’ultimo lavoro di Miyazaki, dimostrando la propria autoreferenzialità, identificando Dante, De Chirico, Bocklin, Magritte, Lewis Carroll, Fellini, ecc. e soprattutto quell’airone che nella cultura giapponese non è un uccello qualunque ma è una presenza perturbante e fantasmatica, di nuovo un riverbero della narrazione, un sostegno alla narrazione. Preferisco abbandonare ogni lettura iconoclasta e portarvi nel cuore della storia dove la natura non vuole simboleggiare nient’altro che essa stessa, sta dietro e davanti e dentro le case con quei riflessi dai toni verdi, come se le case siano abitate dalla natura, decori vuoti. Al centro del viaggio ci sono un bambino e le sue madri, c’è la femminilità, mentre il padre è assente, troppo occupato a fare soldi, lavorando per quella stessa industria bellica che ha ucciso la moglie. Al centro della storia c’è il disvelamento del femminile, che è sempre stato unico intermediario tra la vita e la morte, quel femminile delicato nascosto sotto il parasole che sorregge all’inizio del film Natsuko, la zia, novella sposa del padre, fragile perché aspetta un bambino. C’è la maternità vissuta in solitudine da Natsuko, che in fondo sta per compiere un gesto disperato e l’unico a sentirlo è il ragazzo. C’è la femminilità avventuriera di Kiriko, che non è una pirata ma una pescatrice, che accudisce, apre le carni e sfama le animelle, prima di diventare nel mondo di sopra, una di quelle innocue vecchiette che proteggono Mahito; c’è la femminilità generosa della madre di Mahito che attraversa le fiamme, il tempo e lo spazio per accompagnarlo nel suo viaggio verso se stesso.

E se tardo stile vuol dire qualcosa per Miyazaki è un gesto di liberazione dai simboli, è quel gesto finale, fresco, liberatorio, come il volo degli uccelli, in cui ci sentiamo sollevati, quando Mahito attraversa la porta. E le uniche parole dell’airone cenerino, beffardo fino alla fine, sono: pian piano dimenticherai. “Che saetta previsa vien più lenta”, la freccia che sai dovere arrivare fa meno male, scrive Dante.

Silvia Acierno