Il silenzio di mio padre della giornalista francese di origini vietnamite Doan Bui (edito nel 2023 da XY.IT e vincitore del Prix Amerigo Vespucci e del Prix de la Porte Dorée) è – a dispetto del titolo – un libro, di ispirazione autobiografica, in cui le parole contano molto.
È, infatti, proprio attraverso lo studio e la ricerca, la messa a confronto dei termini che – nella lingua vietnamita come in quella francese – servono a rappresentare il mondo con i suoi odori, colori, suoni, accenti e variazioni di suono e di senso, che l’autrice ricostruisce la storia della propria famiglia e, in particolare, del padre, emigrato in Francia da giovane studente e mai più tornato in patria, dopo la caduta di Saigon nel 1975.
Un padre che, all’inizio della storia, veicolata attraverso uno stile di scrittura agile ed evocativo, in certi passaggi molto vicino al reportage o alla cronaca, è molto simile a una figura fantasmatica, molto amata e rispettata dalla figlia narratrice (il suo racconto è in prima persona) ma altrettanto misconosciuta, anello spezzato della genealogia familiare.
Non è solo l’ictus, però, che ha irrimediabilmente minato il fisico e la capacità di linguaggio del padre di Doan Bui: il silenzio greve ma carico di significati nascosti, perduti, di rimandi a un passato non più totalmente leggibile e per questo minacciato dall’oblio, di cui parla l’autrice è anche quello simbolico di un popolo che ha perduto la sua patria, e la cui cultura sopravvive a fatica, concentrata entro un linguaggio che le nuove generazioni non riconoscono più, nella mai risolta diaspora che accomuna, al di là, di tempo e storia, ogni generazione di migranti.
Per ritrovare il padre perduto Doan è costretta, dunque, non solo a tessere le fila della propria genealogia personale e familiare (entro cui il tema della perdita delle radici, dell’assenza, della patria di nascita ed elettiva si fonde con quello altrettanto sensibile del cosa significhi l’essere figlio o, addirittura, perdere un figlio), ma anche e soprattutto a restituire a sé stessa e ai propri consanguinei il senso più autentico di un linguaggio non burocratico, ma emozionale, affettivo.
Lungo questo difficile cammino di formazione e crescita Doan Bui esplora la bellezza dei legami che si spingono oltre il proprio limitato orizzonte domestico, per abbracciare il mondo, manifestandosi addirittura nella scoperta di un fratello mai conosciuto, nuovo e prezioso tassello di una vicenda umana – quella paterna – non ancora raccontata.
È proprio nell’apertura e nell’accettazione dell’altro da sé, con la sua cultura, le sue espressioni idiomatiche, le sue parole, che è possibile rimarginare ogni possibile frattura tra la propria anima e quella dei luoghi, sia fisici che interiori, scongiurando la costante minaccia della smemoratezza e dell’oblio.
Come dice Doan Bui con la sua voce limpida, precisa e tagliente, lirica e dolce: “Ho scavato in profondità e trascinato le parole a una a una, come dei chicchi di sabbia. È un lavoro paradossale che tuttavia mi nutre, mi consola. Trasmetterò alle mie figlie queste parole, la voce di mio padre, gli assenti, i dispersi, i miei dispersi”.
Ridare voce al silenzio: è questo l’unico modo per ritrovare la via di casa.
Barbara Rossi
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