Parlaci di te.

Sono Giuseppe Mazza, siciliano di nascita, vivo a Milano da poco più di vent’anni, prima copywriter per Saatchi&Saatchi e LowePirella, oggi direttore creativo e fondatore di Tita. Per il resto, tra le cose fatte ne scelgo due: Bill, una rivista che ragiona sul linguaggio della pubblicità, e i libri per bambini, illustrati da Anna Cairanti.

Da quanto tempo lavori per la tua azienda e in che consiste il tuo lavoro.

Dal 2008, l’anno in cui è stata fondata Tita. Il mio lavoro è la pubblicità: scriverla, pensarla, studiarla. Però anche insegnarla mi piace molto, anzi sempre di più. Lo faccio per IULM e Scuola Holden ricavandone un certo ottimismo sul futuro.

Quanto è stata importante la tua formazione per quello che fai oggi?

Il punto è se t’importa quello che studi. A me è successo, perciò oggi tutto mi tiene compagnia. Se poi per formazione intendiamo anche gli ambienti frequentati, le persone e i maestri, i viaggi, i dischi, i concerti o i cibi, l’umorismo con gli amici, le idee messe in piedi con gli altri… allora la mia formazione è stata decisiva: mi ha dato la gioia della condivisione.

I libri che ruolo hanno nella tua vita?

Più centrale da piccolo, leggevo sempre. Poi man mano ho capito che in fondo un libro è un’esperienza, che tutto era un po’ come un libro e di esperienze da fare ce n’erano un sacco: fare radio, scrivere satira, ideare libri per bambini, aprire un circolo… cioè ogni volta scopri un mondo interessante, ti addentri e ne fai qualcosa. Comunque continuo a leggere di tutto.

I libri sono stati importanti per il lavoro che fai?

Sicuramente. Per scrivere devi leggere. È l’unico consiglio che mi sentirei di dare stabilmente a chiunque. Il difficile è star dietro alle passioni. Ultimamente – passati i cinquanta – sto anche accettando l’idea per cui non riuscirò nell’arco della mia vita a leggere tutto ciò che merita. Un po’ mi dispiace, ma non si può cambiare il tempo. Grazie lo stesso a tutti.

C’è un libro in particolare che ha avuto un ruolo decisivo in quello che sei oggi?

Uno solo non saprei. Ci sono state cose molto diverse. Ricordo anche fumetti come quelli di Pratt o di Pazienza, quando non c’era bisogno di chiamarli “graphic novel” per prenderli sul serio. Se parliamo di letteratura pura, tra le letture dei vent’anni scelgo due autori più che singoli libri. Il primo è Sciascia, cito L’affaire Moro, per la sottigliezza nell’analizzare i segni verbali e non – ma aggiungo Morte dell’inquisitore, perché non conosco un testo italiano di passione civile più commovente. Il secondo autore è Henry James: mi piaceva così tanto il modo in cui si applicava all’interpretazione dei gesti e delle parole, in particolare La fonte sacra, ma anche Il carteggio Aspern o racconti come La cifra nel tappeto o La belva nella giungla, fu una folgorazione. Ripensando ora a queste letture, noto che, per quanto confusamente, il linguaggio e il suo mistero erano al centro dei miei interessi. Oggi lavoro con le parole e mi sembra che il mio tentativo quotidiano di renderle limpide sia figlio anche di queste esperienze.

Intervista a cura di Angela Vecchione