“In una società da cui abbiamo assorbito il desiderio di primeggiare a ogni costo, è il momento di dare al concetto di mediocrità una nuova sfumatura, cominciando a rivendicarla come il valore rivoluzionario di scoprirsi simili, senza per forza inseguire un’idea di successo che non condividiamo. La mediocrità, infatti, non è solo quella degli incompetenti che raggiungono posizioni di potere grazie alla loro quieta omologazione, ma può essere anche quella di chi decide di sottrarsi alla corsa performativa – che sia per dimostrare le proprie doti lavorative, fisiche o intellettive – rifiutando le sue logiche”.
Così recita il post sull’account Instagram della rivista “The Vision” che rimanda all’interessante articolo di Silvia Granziero intitolato Dobbiamo rivendicare il valore della mediocrità. Vivere con l’obbligo di primeggiare logora uscito il 6 luglio 2023.
L’ultima in ordine di tempo di tante, tantissime riflessioni intorno al concetto di performance che in particolare quest’anno stanno segnalando forte e chiaro un sentiment generale desideroso (se non piuttosto bisognoso) di trovare un nuovo paradigma di vita, finalmente libero dalle pressioni della prestazione e dalla sua misurabilità nei diversi ambiti del quotidiano.
Il fil rouge della performance
Prendo a prestito qualche esempio dalla cronaca recente: le parole di Emma Ruzzon – studentessa di Lettere Moderne all’Università di Padova, nonché presidente del consiglio degli studenti e Senatrice Accademica dell’ateneo – nel suo intervento durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova a metà febbraio, dove ha parlato del tema dei casi di suicidi di colleghi, e delle pressioni subite da istituzioni e famiglie: “Quand’è che studiare è diventato una gara? Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare?”.
O ancora le parole della giornalista Giovanna Botteri a marzo, durante un collegamento in diretta da Parigi in occasione delle proteste in Francia contro la riforma proposta dal presidente Emmanuel Macron che alza l’età pensionistica da 62 a 64 anni. “Da 50 anni ci ripetono che ‘devi lavorare duro, fare carriera’. Ti dicono che dipendi dal lavoro che fai, dai soldi che ti guadagni. E invece c’è una vita oltre il lavoro e bisogna rivendicarla”.
Scuola e lavoro sono gli ambiti in cui più facilmente si rintraccia questo schema di pensiero, ma non fanno eccezione anche aspetti più personali del quotidiano di noi tutti, dalla vita sessuale alla corsa al benessere fisico fino alle relazioni familiari. Una gara senza fine per soddisfare modelli e giudizi che spesso non ci appartengono e che ci fanno perdere di vista i focus importanti per ciascuno di noi. Ci vuole una Michela Murgia a ricordarcelo ancora una volta. A maggio, durante la presentazione del suo ultimo libro Tre ciotole (Mondadori) al Salone del Libro di Torino, ha dichiarato: “Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso. Mi sveglio la mattina e dico tutto, faccio tutto, tanto che mi fanno, mi licenziano? Questa libertà voglio usarla, per lasciare un’eredità. Se c’è qualcosa che non ho avuto il coraggio di dire o di fare adesso lo faccio. Non ho più limiti. Però vi dico: non aspettate di avere un cancro per fare la stessa cosa”.
Quattro chiacchiere con Maura Gancitano di Tlon
A riflettere in tempi non sospetti sul concetto di performance sono stati Maura Gancitano e Andrea Colamedici, che già nel 2018 pubblicarono La società della performance (Tlon Edizioni). Quest’anno sono voluti tornare su un aspetto più circoscritto, quello legato al lavoro, con il volume Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo per Harper Collins Italia.
“Il libro parte idealmente dal concetto elaborato nel 2018 per cercare di approfondire le sue conseguenze in ambito lavorativo. In questi anni l’espressione società della performance si è diffusa moltissimo, in particolare per illuminare le dinamiche culturali che influenzano l’azione umana quotidiana, ma ci sembrava che per capire davvero cosa sta succedendo nel mondo del lavoro fosse importante spiegare come si è arrivati a lavorare così tanto e così male” spiega Maura Gancitano, cofondatrice di Tlon, un progetto di divulgazione culturale che analizza bisogni e significati del nostro tempo e si esprime attraverso una factory culturale, una casa editrice, due librerie e un’attività di divulgazione.
Sul tema della performance: quanti e quali sono i miti in cui si declina secondo voi nella società attuale (lavoro, relazioni, …)?
Si declina in ogni ambito: innanzitutto nei confronti di se stessi e di tutto quello che non si riesce a fare alla perfezione e a controllare, e che genera senso di colpa (per esempio il bisogno di riposarsi); anche in ambito scolastico, affettivo, familiare, spirituale. Ciascuno di noi viene spinto a valutare le altre persone sulla base delle loro prestazioni, ma fa lo stesso prima di tutto verso di sé.
Ne La società della performance provate a dare dei suggerimenti su come sfuggire al bisogno di misurare i risultati e di godersi la spontaneità. Nell’ultimo libro quali sono in sintesi i suggerimenti che fornite per liberarsi da un vecchio preconcetto che vede noi realizzati solo con il lavoro?
Innanzitutto, dato che si parla di lavoro nel libro, ci sono due serie di domande sul benessere in ambito lavorativo, la prima rivolta alla persona e la seconda all’organizzazione che dà lavoro. Oggi è importante domandarsi se il lavoro che si fa crea coinvolgimento e benessere (a livello economico, sociale, psicologico, fisico). Parliamo di diseguaglianze e senso di precarietà, perché lavorare bene e in modo efficace dipende molto anche dal trattamento economico e dal senso di stabilità che il lavoro può offrire. Il libro, però, parla molto del fatto che il lavoro ha occupato uno spazio nelle nostre vite (in termini di quantità di tempo e pensieri intrusivi) che non solo non fa bene a livello psico-fisico, ma che ci impedisce di dedicarci alle relazioni umane e all’azione pubblica. A tanti di noi piacerebbe forse partecipare di più alla vita del quartiere, all’associazionismo, al volontariato, ma lavoriamo troppo e, anche quando abbiamo tempo, siamo troppo stanchi e abbiamo troppe persone di cui prenderci cura per dedicare energie anche a quello. Il lavoro ha inglobato le energie migliori degli esseri umani.
Cosa ne pensate degli ultimi casi associati al concetto di performance: la scuola che pressa gli studenti, il quiet quitting, il carico mentale delle donne in casa…?
Nel libro parliamo di lavoro domestico e lavori di cura perché per molte donne rappresentano un altro lavoro a tempo pieno, che però non viene considerato lavoro perché fatto “per amore”. È importante capire che la ragione alla base è che senza questo lavoro gratuito il nostro intero sistema economico non sarebbe sostenibile. Per quanto riguarda il quiet quitting – cioè il lavorare il minimo indispensabile per non farsi licenziare ma cercando di rimanere emotivamente distanti dal lavoro che si fa – si tratta di una delle reazioni che illustriamo nel libro e su cui stiamo ancora ragionando: essere coinvolti, infatti, è essenziale per gli esseri umani, quindi il quiet quitting potrebbe essere una reazione legittima, ma potrebbe avere delle conseguenze spiacevoli proprio per i lavoratori. Infine, la questione della scuola che chiede performatività costanti verso gli studenti ci sta molto a cuore, ma spesso nasconde delle questioni più complesse e legate specificamente a quell’ambito della vita: c’è un grande problema di senso anche lì, perché gli studenti sono spesso scoraggiati e disillusi e dall’altra parte la scuola chiede eccellenza e performatività, anziché cercare di far emergere quella richiesta di senso. Molti insegnanti lo fanno con le proprie risorse e con poco tempo a disposizione, ma anziché criticare la generazione Z dovremmo cercare di creare un dialogo.
Che legame e/o differenza possiamo individuare fra merito e performance?
Il merito riguarda dei criteri di selezione oggettivi, che vengono scelti da una società sulla base di ciò che si considera valore, ma che spesso confermano i privilegi di partenza delle persone. La performance è ciò che viene chiesto alla persona perché le venga dato ciò che merita. Va da sé che, in una società attraversata da grandissime diseguaglianze, la performance è la spinta a raggiungere ciò che è stato promesso (se ti impegnerai, avrai ciò che meriti), ma che poi viene regolarmente disatteso.
Parliamo invece di fallimento: perché non si riesce a sdoganarlo?
Perché ci viene detto che tutto ciò che facciamo è nostra responsabilità, nel bene e nel male. Non ci sono diseguaglianze e differenze incolmabili, è tutta questione di volontà. Non ci sono cose impossibili, solo persone pigre e incapaci. Per questa ragione, fallire significa essere sbagliati e questo rende prepotenti e famelici, oppure paralizzati di fronte al futuro.
Daniela Giambrone
E tu cosa ne pensi?