Noi ci raccontiamo storie per vivere (The White Album, J. Didion)
Rana salto agua ruido: un instante en el estanque (El libro de la rana, J. Pazó)

Un tempo l’incubazione aveva un suo spazio sacro, terapeutico e creativo: un tempio in cui ci si rifugiava per curare le angosce e i malesseri attraverso i sogni. Poi per mezzo del linguaggio metaforico e stereotipato è diventato quel luogo buio in cui il corpo produce i suoi umori, scuro, lugubre, in cui si annidano i mali prima che la malattia esploda, si conclami e ci trascini giù con lei. Michela Murgia ne fa di nuovo un tempio di cura, in cui curare i grandi mali, anche quelli inguaribili, attraverso il desiderio, il sogno, e la scrittura, che mai come in questo caso è piuttosto un invito all’attivismo, a seguirla, ad ascoltarla, ad unirci a lei: fissare lo sguardo su di lui “tendere le orecchie ad ascoltare, tra il sogno e la realtà, con i peli ritti sulla schiena, a versare lacrime di gioia, e sentire leggero il peso della mente”, scrive Aristide a proposito dell’”incubazione” (Discorsi sacri di Elio Aristide, Adelphi).

Michela Murgia attualizza l’insegnamento di Sontag in Illness as metaphor (in comune hanno veemenza, rigore, una malattia incurabile, e uno stuolo di detrattori): purificare la malattia dal pensiero metaforico. “The healthiest way of being ill is one most purified of, most resistant to, metaphoric thinking.” Le storie che Murgia ci racconta avvengono durante il lockdown per il codiv, altro virus trattato come un “nemico” a cui fare la guerra, con generali in divisa, da combattere e sterminare. Contro le metafore, Murgia è schierata nettamente da tempo. Da tempo è impegnata con tutta se stessa ad abbattere il velo delle metafore e del linguaggio, per svelarci la malattia così com’è, il linguaggio così com’è, nudo, privo della sua carica (nociva) patriarcale. Intendo per linguaggio metaforico, quello che censura l’inesprimibile, tutto quell’universo peraltro assolutamente esprimibile che per qualche ragione fa paura, deve essere tenuto a bada, controllato, vigilato, costretto in un silicio.

Stupido allora sarebbe aspettarsi (come quella solita critica malevola ha pure fatto in questa occasione) un romanzo pieno di orpelli o un linguaggio forbito (del resto è ingenuo aspettarsi questi attributi da un’opera d’arte) e rimanere delusi solo perché volevamo rimanerci. Murgia ci consegna una collezione di racconti scritti con un linguaggio diretto ed essenziale come quelle tre ciotole del secondo racconto. Un corpo malconcio su cui fare una pressione, da rompere salendoci sopra per appianare il terriccio.

Tre ciotole per tenere a bada il disordine in cui a volte precipitiamo; tre ciotole al posto dei servizi di piatti che vanno in frantumi, come in ogni buona famiglia che si rispetti. Tre ciotole sobrie che mi fanno pensare al cerimoniale giapponese del tè (chawan, la ciotola del tè e anche del riso); e di questa antichissima cerimonia zen, metafora e pratica mistica, soprattutto alla capanna in cui il macha tè veniva bevuto, il cui ingresso è stato ridotto ed abbassato nel corso dei secoli proprio per costringere tutti a piegarsi, per entrare, tutti uguali, senza gerarchie, anche i samurai lasciavano le loro spade fuori. Tre ciotole come tre occhi di donna: due madri e una figlia; tre ciotole e un’idea di famiglia che lei chiama queer o ibrida o che semplicemente non ha nome (come tutto quello che nasce fuori degli schemi) in cui il tesoro più grande, che dovrebbe essere una lezione anche per le famiglie cosiddette tradizionali, è la scelta rinnovata di stare insieme indipendentemente dal sangue; e la capacità di condividere la responsabilità con chi è disposto a farlo, in un rapporto non più a due ed esclusivo ma plurale, perché a volte le responsabilità sono troppe, il carico affettivo e fisico è eccessivo, ed una sola persona, spesso la donna, in questa catena che è la storia della famiglia, ha le spalle tropo umane e deboli per sopportare i destini delle persone amate, assimilare il dolore, rispecchiarlo, portarlo. Un lungo di simbiosi e riorganizzazione (Donna Haraway, Staying with the Trouble). Accabadora si apriva del resto sui figli dell’anima, i figli che le sorelle si regalano, si prestano, condividono, da sempre, da che mondo è mondo. E lei Murgia è una figlia d’anima.

Nel tempio che sta sulla soglia tra veglia e sonno, tra vita e morte, tra privato e pubblico, tra esprimibile ed inesprimibile, c’è spazio per i desideri tutti anche quelli eccessivi, adolescenziali, vanitosi, appariscenti, troppo colorati; anche i desideri non desiderati, e le scelte sentimentali. C’è spazio per una casa che tenga assieme e del posto sotto il limone. C’è spazio per il sogno: come capacità di guardare le cose da un altro punto di vista, da più punti di vista, da più prospettive temporali. Il sogno come base del pensiero e il pensiero come rialfabetizzazione delle emozioni.

Quello che tiene insieme le storie non sono il loro incrociarsi, quel dettaglio su cui finisce una ed incomincia la narrazione dell’altra, in una raccolta che si è detta corale. Quella sagoma di cartone che dall’armadio della protagonista va a finire nella pattumiera dove la protagonista del racconto successivo la osserva sbadatamente; lei lasciata da lui cinque anni prima, e nel racconto successivo quel lui che ha lasciato lei ma ne è comunque ossessionato, ossessionato di incontrarla nei posti di quel perimetro romano che li ha visti assieme. Non è neanche il rituale che ognuno mette in scena per superare la sua crisi, dalle adolescenti per superare la crisi adolescenziale, alla madre con la sagoma al posto del figlio che è andato via, al dottore con la collezione di pretoriani; quel rito sarà solo un rito tra altri riti, in un epoca quella del covid in cui siamo stati costretti a ritualizzare le nostre giornate, a raddoppiare i rituali per scacciare la paura, non contaminarci e sopravvivere. Perché l’idea che in fondo le cose accadono perché siamo noi a farle accadere è un marchio a fuoco della nostra cultura. A legare i racconti per me sono stati soprattutto i pezzi di Michela, la tensione dell’arco, che fa delle storie un’unica storia. La diagnosi della malattia, la polemica che ci fu durante il covid perché lei aveva detto di non sentirsi rassicurata dal generale Figliuolo in divisa, di non sentirsi rassicurata da un governo che per fare ordine si affida ad un militare. C’è l’adolescente fan di Madonna e la donna matura fan del gruppo musicale coreano dei Bts. C’è una storia d’amore che forse è proprio quella, l’unica in cui si è davvero “innamorata” come racconta al direttore di Vanity Fair. C’è l’intenzione di scrivere un panfletto, la libertà del romanzo e la scrittura di questi dodici racconti.

Sono racconti simbolici e conchiusi, con una stretta al finale che li rende, come nell’arte del racconto, anche imperscrutabili. Perché dell’arco doveva rimanere “la tensione senza intenzione”. Come dinnanzi a un quadro di Magritte, mi sono detta. La scrittrice malata che con un gioco di parole, passando per il coreano e l’inglese, dice all’oncologo: I am, sono la mia malattia (penso al Terapeuta di Magritte, che sotto il mantello al posto del torace ha una voliera aperta, ma anche a ceci n’est pas une pipe). C’è la madre insonne che si chiude rannicchiata nell’armadio a dormire con la sagoma di cartone di una popstar coreana (Magritte ed una delle sue multiple tele che sono sagome della realtà, del paesaggio dipinto o piuttosto l’inverso è la realtà ad essere una sagoma dell’immaginazione); l’ex che ha paura di girare per Roma per non incontrare la donna che lui ha lasciato e che la ritrova in coda in uno dei posti che frequentavano assieme senza accorgersene, glielo diranno gli amici, senza vederla davvero, senza riconoscerla davvero (come Gli amanti velati di Magritte); le ragazzine che il professore osserva da lontano scambiarsi qualcosa che ferisce eppure cura ed unisce e che lui decide di non raccontare alle rispettive madri (qui risuona la frase di Magritte: “we always want to see what is hidden by what we see, but it is impossible. Humans hide their secrets too well”); la donna che non ama i bambini e che porta in grembo un bambino che sin dall’inizio non è sentito né vissuto come suo perché l’ha già donato (ancora Magritte con l’uovo nella gabbia al posto dell’uccello di Elective affinites). Come Magritte la stessa meravigliosa resistenza ai significati prestabiliti, al significato che diamo agli oggetti e gesti quotidiani, quell’immagine che si sovrappone come un velo bagnato (per Magritte quello primario in cui era avvolta la madre quando la ripescarono dal fiume in cui si era lasciata annegare) all’immagine a cui siamo abituati, alterandola e liberando l’interpretazione. Defamiliarizzare tutto quello che ci è familiare.

In genere sono gli altri, chi resta a ritualizzare la morte di chi non c’è più; i riti servono a fare il lutto, a trattenere chi se ne è andato anche attraverso il pensiero magico (Didion) e poi quando arriva il momento a lasciarli andare per davvero, a tenerceli come sono, “morti”. Qui Murgia si sta preparando a lasciar andare se stessa, a domare la paura per ciò che c’è ancora da perdere. È lei ad appendere gli abiti nel suo giardino in una installazione surreale ed ironica (nell’ultimo racconto è la sorella di una defunta che organizza questa specie di vide-dressing per regalare o disfarsi degli abiti assurdi, mai messi, ricordi con gli amici di una agenda in cui l’intensità dell’amicizia si accorda alla frequenza degli incontri settimanale o trimestrale). Quegli abiti sono le multiple vite già vissute, “pelli di rettile, mute del serpente che era stata sua sorella, velenosa e calda, piena di spire”. Una versione tutta femminile di Golconda di Magritte in cui alla pioggia di uomini in bombetta tutti uguali, tutti depressi, grigi, insonni, vivi o piuttosto già morti, autoritratti di Magritte, si sostituisce una pioggia di abiti diversi, di una donna che non ha paura di attirare l’attenzione, di essere diversa, di sperimentare, del ridicolo o del serio.

Il vero pensiero magico per noi semplici lettori resta la scrittura (romanzo o racconto non importa), quella sostenuta da coerenza e ragionamento radicale, l’unica capace di rovesciare la storia dei fatti. Ai membri della sua queer family resteranno i giorni di festa, il meriggio, la notte, la sua parola, il suo canto. Loro fermeranno gli orologi. Ma questa sarà una storia privata.

Ognuno di noi possiede una doppia cittadinanza, quella dei sani e quella dei malati e, prima o poi, anche se solo per una breve  parentesi, tutti dobbiamo mostrare il secondo passaporto. La malattia è una cittadinanza più onerosa ma in un senso diverso da quello usato da Sontag, più onerosa perché il ruolo dell’intellettuale diventa più oneroso: racconta Murgia ora posso dire tutto nessuno può farmi niente, cosa fanno mi licenziano. E qui noi possiamo solo seguirla e poi quando arriverà il momento lasciarla andare.

Silvia Acerno