Pensate a una donna, seduta su un gradino di cemento, davanti a una casetta in scandole di legno dipinte di azzurro – potrebbe essere blu.

Appeso sotto il portico, c’è un dondolo a due posti, scrostato. Un mucchio di scatole e una sedia di plastica. Un barbecue. Un cavo giallo e un altro arancione, arrotolato, appeso al corrimano che sfiora i gradini di cemento. Quello che pare un forno a microonde, ai piedi del barbecue. Intravediamo anche un pickup, e ciuffi d’erba ai lati dei gradini. Una porta e due finestre, chiuse, si trovano alle spalle della donna, che indossa un abito bianco con un intreccio di figure geometriche – una diversa tonalità di blu – e sulle spalle ha un ampio scialle morbido. I polsi incrociati sono appoggiati alle ginocchia. I piedi, in scarpe da ginnastica fiorate, in una posa infantile, imbarazzata.

La giovane donna – ritratta in una foto – fissa l’obiettivo: non sta sorridendo, eppure il germoglio di un sorriso sembra in procinto di spuntare sulle sue labbra chiuse. Potrebbe ridere tra un attimo, chissà. Oppure forse no, perché non c’è niente da ridere; non lo sapremo mai.

In ogni modo dietro la casa, ai bordi della foto, balugina del verde: ci sono alberi, laggiù. Probabilmente, se solo prestassimo attenzione, potremmo anche sentire lo scorrere dell’acqua – un fiume? – e il canto degli uccelli. Oppure il vento, che ora sussurra appena, lievissimo, ma che potrebbe cominciare a urlare così forte da spalancare quella porta e quelle due finestre, rompendone i vetri, da staccare dai suoi ganci il dondolo scrostato, da trascinare le scatole oltre il perimetro del portico e poi chissà dove, da abbattere il barbecue e scardinare le scandole di legno e scoperchiare la casetta. Il vento e poi un mare d’acqua.

Non sarebbe poi così improbabile.

Quella parte del mondo, nel 2005, è stata attraversata da un terribile uragano, dal nome dolce di Katrina, che ha provocato quasi duemila morti e danni incalcolabili, lutti e miseria, tra Louisiana, Alabama e Mississippi.

Il Mississippi, già, perché la casa, sul cui gradino di cemento lei se ne sta seduta, si trova proprio lì.

Oppure, oppure…

La donna potrebbe alzarsi, sistemandosi lo scialle, potrebbe farci un cenno e dirci di seguirla, e allora la vedremmo entrare nel bosco col suo abito bianco e blu e le sue scarpe fiorate, coi suoi capelli neri spartiti sulla fronte, con le sue labbra chiuse – non c’è niente da ridere.

Procedendo alle sue spalle tra la vegetazione, lungo un sentiero stretto, e poi abbandonando il sentiero e camminando curvi tra cespugli spinosi, arriveremmo a una radura. Là, lei si inginocchierebbe, dicendoci: “Guardate”, e noi vedremmo assi di legno, coperte da aghi di pino, e, sotto quelle assi, una fossa profonda, scavata da qualcuno. Una fossa scavata in un bosco – perché? – e poi nascosta, così che nessuno la trovasse.

“Avete visto?”, ci chiederebbe lei.

“Sì.”

“Un giorno o l’altro, racconterò di questo posto”, aggiungerebbe lei, fissando il buco. “Significa qualcosa.”

“Cosa?”

“Ancora non lo so. Me l’ha fatto scoprire mio fratello, Joshua.”

Siamo a DeLisle – un tempo chiamata Wolf Town – nella contea di Harrison, a sud del Mississippi, sulla baia di San Louis. Appena 1232 abitanti in un groviglio di pini e querce accanto al bayou, un’estensione paludosa. De Lisle, attraversata dal Wolf River, che sfocia nel bayou e la separa da Pass Christian. DeLisle, città del lupo, con le sue shotgun houses, i campi da basket dissestati, il parco della contea, un campo da baseball, gli stabilimenti chimici della DuPont oltre una linea di pini, casette in legno, cortili polverosi e strade polverose.

La donna che abbiamo visto seduta sul gradino, che abbiamo seguito nel bosco, che ci ha mostrato quella fossa, si chiama Jesmyn Ward. È nata e cresciuta a DeLisle, nella città del lupo, ed è tornata a viverci dopo gli studi universitari. Il suo mestiere è scrivere.

Se le dicessimo, tornando sul sentiero: “È la prima volta che veniamo qui, sai? Non conoscevamo questo posto”, lei ci risponderebbe: “Invece sì, ci siete già venuti”.

“Quando, scusa?”

“Non ricordate Bois Sauvage?”

Ci sono posti del mondo di cui non abbiamo idea: non sappiamo come si chiamino – mai sentiti – dove si trovino né come arrivarci. Eppure, sono lì, segnati sulle mappe. DeLisle potrebbe essere uno di quei posti. Poi ce ne sono altri, perché la geografia del mondo è duttile ed elastica e comprende, come direbbe Conrad, visibile e invisibile. Luoghi segnati sulle mappe, quindi, e altri invece che vivono soltanto nell’immaginazione di qualcuno e poi tra le pagine dei libri. Bois Sauvage è uno di questi ultimi. Ma sono veri entrambi, esistono entrambi.

Visibile e invisibile: sapete di cosa sto parlando.

Prendete la contea di Lafayette, in Mississippi – colline boscose – il cui capoluogo è la città di Oxford.

A Oxford, e più precisamente al 916 di Old Taylor Road, al fondo di un vialetto in mattoni a spina di pesce, bordato dagli alberi, trovereste una casa elegante a due piani, dipinta di bianco e con imposte verdi, un porticato con colonne – per l’esattezza quattro – dalle sembianze di un tempietto greco, una casa costruita nel 1848, circondata da una trentina d’ettari di boschi, comprata nel 1930, quand’era in condizioni disastrose, dal signor William Faulkner (nato Falkner) che visse lì, con moglie e figli, fino al ‘62, anno della sua morte.

A qualche chilometro di distanza, nei locali della centrale elettrica della University of Mississippi, durante i suoi turni di notte il signor Faulkner scrisse Mentre morivo, poi pubblicato l’anno dopo, nel 1930.

Distese di boschi, vi dicevo – milioni di acri di terra ceduta dai Chickasaw nel 1832, in seguito al trattato di Pontotoc Creek – e la città di Oxford, così graziosa adesso, a cui Bob Dylan dedicò, nel 1962, la sua canzone Oxford Town, inspirata da ciò che accadde in seguito all’ammissione di James Meredith, studente afroamericano, alla University of Mississippi, governata fino ad allora da un rigido segregazionismo – e infatti gli studenti bianchi disgraziatamente insorsero, bruciarono automobili, lanciarono bottiglie e mattoni e sassi, vandalizzarono i locali dell’università, la stessa nella cui centrale elettrica, durante i suoi turni di notte, Faulkner aveva scritto il suo romanzo; lui, che conosceva palmo a palmo la contea di Lafayette, gli alberi e il fango, quell’angolo di terra tribolata in Mississippi, quel punto infuocato sulla mappa. La terra degli avi, il mito e la leggenda e insieme la durezza, a cui avrebbe dedicato quindici dei suoi romanzi.

Ora prendete la Yoknapatawpha County, dal nome impronunciabile – il nome originario dello Yocona River – venuta fuori dalle profondità dell’immaginazione di quell’uomo, eppure così somigliante a Lafayette, una contea il cui capoluogo narrativo, Jefferson, è una visione personale, distillata, della città di Oxford.

Arrivando all’ultima pagina dell’edizione a tiratura limitata del 1936 di Absalone! Absalone!, tanto per dirne una, vi imbattereste in una cartina, vergata in rosso e nero, di quel territorio immaginario – 2400 miglia quadrate, una popolazione prevalentemente nera – delimitato a sud dallo Yoknapatawpha River.

Una mappa disegnata da lui, che giustappone a indicazioni topografiche annotazioni letterarie – il punto esatto in cui un personaggio è stato sepolto, quello in cui un altro è stato ammazzato, un altro ancora in cui qualcuno è stato linciato: luoghi di morti e sepolture, e luoghi di omicidi, accanto a piantagioni, banche, ponti spazzati via dall’acqua, case e chiese. È una delle tante che Faulkner tratteggiò, nel corso degli anni; a differenza delle altre, però, quest’ultima riporta, nell’angolo in basso a sinistra, il nome dell’autore accanto a una specifica: sole owner and proprietor.

Faulkner indicò sé stesso come unico padrone e proprietario di un mondo di finzione, fantasma narrativo, una distesa di terra circoscritta segnata dalla Guerra Civile – “la guerra infinita” e il mito della “causa persa” che ne derivò – che era il negativo della fotografia della contea di Lafayette con tutta la sua storia, il suo passato, con tutti i suoi tormenti, le sue contraddizioni e le vergogne; il luogo letterario dell’urlo e del furore, della caduta e decadenza, della violenza e della lacerazione del suo Mississippi, quell’angolo di terra strappato ai nativi che, per estensione, era l’urlo e il furore del mondo, del “cuore umano in conflitto con sé stesso”.

La donna con il vestito bianco, Jesmyn Ward, nata e cresciuta a De Lisle, è la “sole owner and proprietor” della città di Bois Sauvage, che di DeLisle è il negativo fotografico, la visione immaginaria, lo splendido, cupo e lucente fantasma letterario, raccontato nei romanzi La linea del sangue, Canta, spirito canta e Salvare le ossa.

La stessa terra, il Mississippi, e, a distanza di tempo, due luoghi dell’immaginazione.

Visibile e invisibile, ecco. Ed esistono entrambi.

Ora, mentre torniamo davanti alla casa di scandole di legno e lei si siede nuovamente su quel gradino di cemento, lo scialle che le copre le braccia, i piedi in una posizione da bambina, Jesmyn ripete che scriverà della fossa nel bosco e scriverà di suo fratello Joshua, amato e perduto, e di altri quattro ragazzi, ragazzi neri, amici fraterni, vite che pulsavano, morti giovanissimi. Scriverà, abbandonando per un attimo la sua Bois Sauvage, di quello che è accaduto a DeLisle, tra alberi e bayou, tra povertà e disoccupazione ed emarginazione. Scriverà del cuore umano in conflitto con sé stesso e con il mondo. Scriverà della sua terra.

“Lo farò, sul serio. Qualcuno deve farlo.”

Ma noi, in una strana mescolanza di piani temporali – cos’è la scrittura se non un lavoro intorno al tempo, con il tempo? – noi, che la guardiamo lì seduta, sappiamo bene che Jesmyn l’ha già fatto, e conosciamo il titolo del libro di cui lei sta parlando al futuro. Sappiamo che s’intitola Sotto la falce, lo abbiamo già letto o lo leggeremo.

Il rumore dell’acqua, il canto degli uccelli e il vento, intorno alla casa. Le foglie degli alberi cominciano a vibrare. Il dondolo cigola. Guardiamo il cielo che scurisce – noi e lei, insieme – sopra il bayou, sopra la fossa scavata nel bosco, su quei ragazzi perduti terribilmente troppo presto, e ci chiediamo cosa stia per succedere, cosa succederà.

Elena Varvello