Come può l’evento più cruento di tutta la storia recente fare da cornice alle trame di una famiglia senza che la sua trattazione, volutamente sommaria, risulti superficiale, carente degli approfondimenti da sempre richiesti a chi osi raccontare quegli anni lì?

Gli anni bui del nero più scuro.

Ci riesce perfettamente Marinella Savino, con La sartoria di via Chiatamone, suo romanzo d’esordio. E lo fa a mezzo di un personaggio quello di Carolina che potremmo definire eroina ante-litteram, femminista prima che il femminismo divenisse necessaria spinta per il movimento perpetuo all’emancipazione delle donne.

La Savino, finalista 2018 al premio Italo Calvino nella sua XXXI edizione, ripercorre le gesta eroiche di una donna che, in una Napoli flagellata dall’occupazione nazista, riesce nell’impresa ardua di portare in salvo lei, la sua famiglia e i suoi amici più stretti. Vicini e parenti che presso la sua dimora trovano rifugio e protezione.

I fatti prendono avvio inesorabile dall’ingresso trionfale delle truppe tedesche nel capoluogo campano: il 5 maggio 1938.

I vicoli di Napoli gremiti di curiosi assistono all’arrivo della berlina reale su cui viaggia Hitler. La città si veste di simboli nazisti, la gente solleva le braccia in saluto romano. Il comune senso di gloria e grandezza muove le masse, agita gli animi in un delirio di onnipotenza corale.

Con indomabile lucidità e determinazione Carolina, protagonista del romanzo e una tra i pochi a scorgere in quella solenne parata l’inizio della fine per il suo popolo, elabora un piano di salvataggio ineludibile, grazie al quale riesce a divenire approdo sicuro per chi la circonda.

Da abile sarta, con l’aiuto delle ragazze che lavorano per lei, cuce notte e giorno per soddisfare le richieste dei suoi clienti, pure i nazisti, per i quali confeziona vestiti consegnati con la maestria di una bravissima artigiana e la cazzimma, si direbbe a Napoli, di un’ardimentosa mamma dei quartieri, che non lesina a sputare sugli abiti degli occupanti. Rei di aver ridotto la sua gente alla fame più nera. È proprio per salvare i suoi cari dalla fame, Carolina accumula con straordinaria perseveranza le risorse economiche che le consentono di fare della sua cantina un bunker alimentare.

La sua costante determinazione fa da contrappeso ai fatti nodali nelle vite che le gravitano attorno: al mutismo di sua sorella Luisella, quando giunge la notizia che suo figlio Mario è disperso al fronte; all’amputazione della gamba di suo marito don Arturo, che riemerge dalla sofferenza grazie proprio al carattere della sua impavida moglie; alla vestizione dei suoi stessi figli, quando viene esteso l’ordine di arruolamento a tutti i giovani dai 18 ai 33 anni, pena la fucilazione. Proprio in quest’ultima trovata di Carolina, che fa vestire i suoi due figli da ragazzini per poi occultarli int’a’ putec’ ‘e don Ernesto, emerge tutta l’autonomia, decisione, risolutezza e salvataggio dell’animo femminile, progettato da madre natura per tutelare e preservare la specie umana.

Carolina conduce la guerra a modo suo, rischiando, proteggendo, sfamando.

Grazie anche all’uso sapiente del dialetto, stretto nei dialoghi come fosse la sceneggiatura di un film, credibile nella voce narrante per le sue dosate incursioni, sembra di trovarci al fianco di questo straordinario personaggio femminile. Magistralmente tratteggiato.

Il 1 ottobre 1944 un’isteria collettiva, diametralmente opposta a quella che aveva aperto il libro, saluta l’arrivo degli Alleati. Accolti come liberatori dalla moltitudine; riconosciuti come oppressori fino a qualche tempo prima da altri.

I liberatori non liberarono nulla. La miseria bombardò la città e il paese ancora per anni. Era un nemico troppo forte. Nemmeno gli Alleati furono capac’ ’e sucutià ambress’ ’a miseria. Non si morì più di fame, questo, sì. Ma la città rimase piegata dalla mancanza di tutto e le navi colme di viveri degli Alleati non bastarono a una popolazione che non aveva altro che l’urgenza del tutto”.

Carolina, la fame, la storia, la guerra. La città di Napoli, affossata e poi risollevata. Nella coralità di una catastrofe nota, la consapevolezza di un’autrice nuova, talentuosa, coraggiosa come la sua protagonista. Una scrittrice che in un universo identitario tutto femminile riesce a restituirci la speranza della salvezza.

Angela Vecchione