C’è stato un tempo, ad Ancona, in cui all’interno del capoluogo marchigiano si muoveva un mondo altro, cadenzato da un ritmo tutto suo e, al contempo, da silenzi, abitudini e fantasmi senza volto. Un universo costellato da storie con contorni slabbrati che pulsava sotto ai tetti colorati del colore del sangue, dove radunati c’erano gli esclusi, i reietti, i pazzi, i diversi, i “sepolti vivi”, tanti cuori senza punti di riferimento; il segno indelebile di quanto la follia fosse in realtà “tutto ciò che non faceva comodo agli altri”.

A raccontarlo è Alessandro Moscè, che, in occasione della vendita della casa dei nonni materni ad Ancona, luogo in cui ha trascorso la sua infanzia, riavvolge il nastro dei suoi ricordi passati, connettendo “il senso di inadeguatezza e di mistero” che provava da bambino con quello che prova ora, da adulto, circoscrivendo quel vuoto ritrovato come “un peso morto, in disfazione.”

Le case dai tetti rossi, edito da Fandango Libri, prende avvio dalla consapevolezza di una rivoluzione: quella che ha visto la luce dopo il varo della Legge n.180/78 meglio nota come Legge Basaglia che ha ridisegnato i servizi psichiatrici in Italia con l’obiettivo di cambiare la società e il suo rapporto con la salute e la malattia mentale.

Basaglia, come espresso indirettamente dai personaggi di questa storia, aveva un obiettivo ben chiaro: “liberare liberandosi” ovvero riportare la follia nel mondo a cui apparteneva e dunque “fuori” e non “dentro”, per riattivare, in tal senso, persone che per anni erano state completamente passivizzate, private di impulsi e desideri.

Da qui l’importanza espressa dell’arrivo, come direttore del manicomio di Ancona, del professor Lazzari, il quale sulla scia delle innovazioni volute da Franco Basaglia, avvia nella struttura cambiamenti necessari a sciogliere tanto i lacci fisici quanto mentali dei degenti, acuiti da terapie farmacologiche invasive usate non tanto come cura quanto più come contenimento o, ancora, dalla pratica dai risvolti disumani dell’elettroschock.

Moscé, mediante il professor Lazzari, gli altri psichiatri, Suor Germana, figura chiave nella gestione dell’ospedale e il giardiniere tuttofare Arduino che in diari conserva la memoria di quel luogo e dei suoi abitanti, narra la fine di quella che potrebbe definirsi come una sorta di prigionia istituzionalizzata, rovesciando l’archetipo che designava la malattia mentale come un pericolo sociale.

A farsi strada tra le pagine e nel mezzo delle vicende di Nazzareno, Franca, Adele, Sebastiano, Lucio, Carlo, Franca e tanti altri come loro, sono corpi senza padrone, voci stonate, gesti imprevedibili, linee spezzate che vogliono però ridisegnare speranze e possibilità partendo proprio dall’arte e dallo sport, perché “la parola chiave è normalizzazione”.

“L’arte è terapeutica. –Ammette nel racconto il professor Lazzari – Dovremo sviluppare dei laboratori all’avanguardia per colorare le emozioni del paziente che parla con noi in uno stato di cattività.” O ancora, in un illuminante dialogo tra quest’ultimo e il dottor Fermenti: “Chiedo più umanità. I confini tra amore malato e amore sano sono molto simili. Come il confine tra la normalità e la follia. (…) Opereremo una bonifica sociale”.

Moscè per mezzo di parole semplici e dirette, caratterizzate altresì dalla profondità e dallo sguardo sfaccettato del poeta rivolto in tutte le direzioni, intesse una narrazione di infinita umanità e bellezza in cui piuttosto che etichettare il male, confinarlo o bandirlo si mira a ridimensionarlo, rivoluzionandolo con un sorriso e ridisegnandolo come fosse un volo di verzellini.

Le case dai tetti rossi diventa, dunque, il racconto che anticipa l’ingresso nella società dei malati di mente, la loro restituzione alla vita e, al tempo stesso, si fa omaggio sentito a chi volle credere di poter guarire, rieducare quelli che per convenzione e paura venivano chiamati “matti” aprendosi alla rivoluzione certamente possibile che scaturisce da un gesto o da una parola di conforto.

“Perché il matto è una voce seppellita, una parola stentorea. Il matto non stimola, genera uno scarto della mente, una dimenticanza, come non avesse vita biologica. Eppure, nei suoi comportamenti, è una centrifuga, un tentacolo, perfino una rilevazione. Il matto è il luogo dell’imprigionamento del corpo decretato dalla natura. È anche un’altra faccia del conformismo sociale, perché espropriato di tutto, anche del suo orologio.”

Moscè diventa narratore di un amore che ha camminato a braccetto con i concetti di coraggio e fiducia, di riabilitazione e inclusione, di progresso e cambiamento e, insieme, di chi ha saputo accogliere e accettare il buio della mente e dell’ignoto e, partendo proprio da qui, ha voluto sanare le crepe lungo un cammino che, in quanto fatto umano e sociale, appartiene ad ognuno.

Perché, in fin dei conti, “la follia non è un’invenzione ma un’ipotesi”.

Lorena Carella

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