L’amicizia femminile, come (anche) la Ferrante ha dimostrato, rende tanto in letteratura. Viene bene come vengono bene i bambini, nei loro percorsi narrativi che sono tutta-scoperta.
Il sodalizio tra donne, quel rapporto di reciproca comprensione, di latente rivalità, di sottintesa empatia è ormai uno dei temi presi maggiormente in prestito per scrivere storie nelle quali i lettori (in questo paese soprattutto donne) si riconosce.
Identificazione, sorella!
Anche per la toscana Maria Valentina Luccioli è così, nel suo romanzo d’esordio O forse no, pubblicato da Robin Edizioni e selezionato per la finale del Premio letterario Clara Sereni presieduto da Liliana Segre e Walter Veltroni.
Quella che ci restituisce la Luccioli è una storia lunga cent’anni, dal 1920 ai giorni nostri. Le protagoniste di questo bel libro sono quattro, due vivono nel presente nelle identità di Viviana e Silvia; due nel passato e prendono i nomi di Maria e Liviana. Proprio alla storia di queste ultime ci sentiamo, una volta terminata la lettura, più legate.
Maria è di origini modeste, non ha ricevuto istruzione ma è riuscita a erudirsi da sola grazie alla lettura dei libri che sua cugina Liviana riesce a procurarle periodicamente; questa invece, con alle spalle una ricca famiglia borghese, sposerà un nobile torinese in un matrimonio di facciata, vivendo indisturbata per tutta la sua vita una travolgente storia d’amore con il musicista Arturo, che di fatto sarà il padre dei suoi figli. L’amicizia tra queste due donne vive di una relazione epistolare, quando Liviana dalla Toscana si trasferirà in Piemonte. L’infedeltà, la tragedia che colpisce Maria, le vicende tristi e liete che capiteranno nella vita di due cugine vengono filtrate dalle lettere che non cesseranno mai di scriversi, se non quando la seconda guerra mondiale si abbatterà su Torino, prima città ad essere bombardata in Italia. Lo sfondo storico degli avvenimenti che si infrangono, come aerei militari, sul capoluogo piemontese contribuisce, insieme al loro vissuto emotivo, a farci essere al loro fianco. L’aiuto incondizionato prestato dalle due donne ad una famiglia ebrea richiama l’idea, già ampiamente dimostrata da Manzoni a Scott, che la storia possa passare attraverso le gesta di gente qualunque.
Poi troviamo Viviana e Silvia, anche loro molto amiche in un presente che dopo la relazione epistolare, lo sfondo storico e le scelte coraggiose di due figure, a loro modo rivoluzionarie, quasi appare ordinario rispetto ai tempi che furono. Donne diverse al punto giusto tanto da essere l’una specchio impietoso dell’altra. Si scopre, percorrendo questa seconda parte della storia che c’è un legame di sangue che lega Viviana a Maria, un vincolo che attraverso i geni riesce a portare in eredità dalla seconda alla prima anche quella capacità di sentire le cose prima che queste avvengano. Il sesto senso trasmesso nelle generazioni che salda passato e presente.
La storia scorre veloce, si avverte, leggendola, quella voracità onnivora di terminarla per capire che ne sarà di Maria, cosa delle altre. A mezzo di una scrittura fluida, fatta di incursioni intime e passaggi evenemenziali, questo romanzo ci regala, nella sua semplicità, una bella storia. Una storia che ha ben poco da invidiare a titoli venduti in migliaia di copie e declinati in decine di lingue, Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin, avete presente?
Siamo in quelle zone lì. Dove l’intreccio svolge una funzione essenziale, i flash back e i salti temporali diventano necessari. Dove la storia si colloca un passo avanti alla lingua. Perché quando si legge, qualche volta, chiediamo soprattutto questo alle pagine che sfogliamo.
Angela Vecchione
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