Il termine “transizioni” ha una carica particolarmente evocativa in italiano indicando il “passaggio da una situazione a un’altra, sia in senso statico, come condizione intermedia definita, che in senso dinamico implicando dunque l’idea di una evoluzione in atto.”

È singolare pertanto come tale termine sia stato scelto dalla Casa Editrice Sellerio come titolo della versione italiana di Crossing, secondo romanzo del giovanissimo autore finlandese, di origine kosovara, Pajtim Statovci. Un romanzo che è al tempo stesso una rappresentazione grezza e lirica al contempo, della disperata ricerca di un individuo per l’unicità in un mondo che crede erroneamente che la realtà dell’identità di una persona sia immutabile.

“Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle”, afferma difatti Bujar, il giovane protagonista della vicenda. Un ragazzo che è perlopiù un uomo e che perlopiù viene dall’Albania. Queste sono, almeno, le identità con cui inizia e finisce il suo viaggio.

I suoi attraversamenti attraverso diverse rappresentazioni di sé, luoghi e angoli di mondo amplificano e alimentano ulteriori interrogativi sulla spasmodica ricerca di un’identità che è personale ma al contempo collettiva, delineando un percorso vissuto talvolta come una silenziosa eppur potentissima “battaglia prolungata”.

“Sono un ragazzo di ventidue anni, che a volte si comporta come immagina facciano gli uomini, potrei chiamarmi Anton o Adam o Gideon, il nome che di volta in volta suona meglio, e sono francese o tedesco o greco, ma albanese mai, e cammino esattamente come mi ha insegnato mio padre, a passi larghi e cadenzati, so bene come tenere alti petto e spalle, la mascella serrata a garantire che nessuno invada il mio territorio. E in momenti come questo la donna che è in me arde sul rogo”.

Bujar parla in prima persona, in un succedersi di eventi e di salti temporali che ci mostrano la sua infanzia in Albania, suo paese d’origine, e poi il suo peregrinare da adulto, in un viaggio affannoso e compulsivo per il mondo.

Alla morte del padre, un uomo intransigente fortemente attaccato alle tradizioni e ai miti albanesi, e contemporaneamente al precipitare della situazione del suo paese nei primi anni Novanta, Bujar si ritrova a rinnegare strenuamente la sua patria e la sua famiglia, sognando e ipotizzando una nuova esistenza insieme all’amico Agim, unico vero amore della sua vita, ripudiato dalla famiglia per la sua omosessualità.

Inizia un periodo di fame, difficoltà, molestie per poi lasciare l’Albania alla volta dell’Italia e poi ancora della Germania, della Spagna, dell’America fino ad arrivare ad Helsinki e all’incontro fortuito con Tanja che ha scelto di cambiare sesso diventando così la donna che ha sempre desiderato essere.

Tuttavia, mentre quest’ultima si lascia andare all’amore incondizionato per Bujar, il ragazzo non perde nuovamente occasione per mostrarsi nel suo animo inquieto e confuso di ladro di identità, nella sua pressoché nulla fiducia nel prossimo e nella sua aberrante non accettazione di se stesso.

Statovci ne Le transizioni dà difatti vita a un personaggio ambiguo e chiaroscurale, pianificando gradualmente la storia della sua personalità e studiandone contemporaneamente le bugie. Controlla e modifica le versioni della storia del suo protagonista, enfatizzando così i processi di selezione, omissione e accentuazione coinvolti in tutte le narrazioni dell’identità. I viaggi di Bujar arrivano così a mettere in scena, dissotterrandola, la compulsione umana a raccontare bugie su noi stessi nell’insana quanto brutale constatazione che non siamo altro che ciò che ci raccontiamo di essere.

“Sono un uomo che non può essere una donna, ma che volendo potrebbe sembrarlo, ed è il meglio che so fare, giocare a travestirmi, e decido io quando iniziare e quando smettere.”

Dando così forma ad un senso latente e profondissimo di disperazione che, per dirla alla Emily Dickinson, appartiene soltanto “ad un anima al cospetto di se stessa”.

“Nei momenti di maggiore debolezza provo una tristezza opprimente, perché so di non rappresentare niente per gli altri, io non sono nessuno ed è come sentirsi morire. Se la morte fosse una sensazione, sarebbe questo: l’invisibilità, vivere la tua vita in abiti scomodi, camminare con scarpe strette.”

Rilevante è anche il contesto in cui Statovci staglia le odissee del suo protagonista, collegando diverse esperienze di identità a storie transnazionali o multiculturali. Quello che ne emerge è un esempio del modo in cui gli individui immaginano le altre culture: non ritratti di nazionalità dettagliati e analitici quanto più reali momenti di intuizione che spuntano dall’allineamento dissonante di esperienze opposte.

Scopriamo dunque il carattere “impiccione” dell’Italia dove tutti pregano a mani giunte e “chiedono a Dio di tirarli fuori dai guai”; l’intelligenza di una terra come la Germania dove ci sono “persone che iniziano una conversazione pur sapendo che le nostre strade non si incroceranno più”, la disillusione della Spagna o le grandi speranze che solo l’approdo in America pare suggerire, in una metropoli come New York dove tuttavia vi sono contraddizioni, discrepanze e disuguaglianze taglienti.

Con questo Statovci non sta cercando di fornire un ritratto a tutti gli effetti dell’Albania o di qualsiasi altro luogo in cui Bujar ha vissuto, quanto più pare voler cercare di dar voce a quel sentimento di senzatetto nazionale che attanaglia e contraddistingue il suo protagonista finendo poi con il racconto agghiacciante dello stato dei diritti trans in Finlandia:

Qui non puoi cambiare il tuo nome, se ne scegli uno di un sesso diverso da quello della nascita. (…) Non si può cambiare a meno di compilare una montagna di moduli e richiedere certificati medici, e invece una può rimanere incinta e poi decidere che non vuole tenersi la vita che le cresce in grembo. Puoi abbandonare un figlio, affidandolo allo Stato o a un’altra persona. Puoi abbandonare la famiglia e la casa senza conseguenze, perché una persona ha il diritto di scomparire ed essere dimenticata. Si può rifiutare di essere rianimati e si possono donare i propri organi a chi ne ha bisogno, ma non si può decidere il proprio nome, anche se è una cosa che riguarda solo se stessi. Si possono persino rifiutare le terapie quando si ha il cancro ed è accettabile togliersi la vita.”

Con un linguaggio sofferto, preciso e vulnerabile, Le transizioni scaglia lampi di luce e rabbia sulle esistenze dei migranti, raccontando delle loro paure recondite e dei loro sogni di rivalsa.

Il tutto in un romanzo appassionato e crudo, come la vita che dobbiamo essere in grado di reinventarci sempre, transitando, appunto, da una situazione a un’altra, in una coraggiosa evoluzione in atto.

Lorena Carella