Ex-Libris-0-7-9

Anno 0 | Numero 7 | Aprile 1997

“Mobile universo di folate / di raggi, d’ore senza colore, / di perenni transiti, di sforzo / di nubi: un attimo ed ecco mutate / splendon le forme, ondeggian millenni. / E l’arco della porta bassa e il gradino liso / di troppi inverni, favola sono nell’improvviso raggiare del sole di marzo.” Lucio Piccolo (Palermo 27.10.03 – Capo d’Orlando 26.05.69) è forse uno dei tanti autori che definire dimenticato sarebbe poco. Piccolo non ha mai varcato la soglia della memoria storica e letteraria. Barone siciliano, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (reso celebre dall’intervento di Giorgio Bassani che nel 1958 scoprì e lanciò Il Gattopardo) Piccolo sembra non aver mai avuto velleità di successo. Antologie ed enciclopedie gli riservano poche righe, tutte concordanti nel definirlo poeta metafisico, ma oltre non è possibile sapere. Federico De Melis (giornalista de “Il Manifesto”) ha dedicato una pagina de “la talpa libri” a questo poeta solitario e isolato, ed ha fatto parlare Vincenzo Consolo che racconta aneddoti e un po’ della vita di questo “caso” letterario che suscitò qualche clamore della critica quando, nel 1956, uscì edito dalla Mondadori Canti barocchi e altre liriche con una prefazione di Eugenio Montale. Lo spazio che De Melis e Consolo dedicano a Piccolo riporta anche una foto e i versi che aprono quest’articolo. Il volto rugoso, lo sguardo apparentemente stanco e triste di letture e riflessioni ma nel contempo acuto e “comprensivo”, il silenzio. Un silenzio ricco di parole, un silenzio che dice tutto e che possiede solo chi non ha più nulla da aggiungere, un silenzio come la natura a cui Piccolo si è volutamente unito in simbiosi e con cui ha poi nutrito fogli sparsi e ancor più solitari di lui, attraverso caratteri che devono essere letti in tempo prima che’ scompaiano. Proprio ciò che esprime la sua poesia: i millenni che ondeggiano, i gradini lisi di troppi inverni che diventano favola, la rapidità dei mutamenti e la fugacità degli attimi che generano un’immobilità spaventosa e ancor più dolorosa in quanto definitiva; la realtà e la consapevolezza espresse con antica eleganza e con gentilezza d’animo.

Marisa Barile

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