Non vi nascondo di aver iniziato la lettura di questo libro con un certo timore misto a scetticismo: sinossi e copertina non mi avevano del tutto catturata. Prima di approcciarmi al testo, ho riflettuto dunque sul fatto che avrei potuto vivere questa esperienza – così lontana dal mio gusto di lettrice – come una nuova opportunità. L’incontro con il romanzo è avvenuto lentamente, accompagnato dalle parole di un autore a me sconosciuto, che ha saputo intrecciare e amalgamare diversi piani di lettura con uno stile chiaro, pulito e molto personale.

L’onore dei vivi è un romanzo di genere ucronico che si colloca in un tempo che non è esistito, ma presenta tutti gli elementi di una storia che sarebbe potuta accadere: l’autore, Nicola Salvini, immagina che il leader fascista Benito Mussolini abbia avuto il merito di tenere l’Italia fuori dalla Seconda guerra mondiale, permettendo così al Paese di conservare i possedimenti del suo Impero.

Ci troviamo in Somalia, a Mogadiscio, negli anni ’60 del Novecento: lo scrittore ci proietta in un tempo fuori e dentro la Storia, caratterizzato dal dominio coloniale italiano nell’Africa orientale.
Sullo sfondo della repressiva dominazione italiana, si inserisce il piano dell’indagine, che ha per protagonista il Maggiore del Corpo della Polizia coloniale africana – Bruno Miltone – uomo integerrimo e fedele all’apparato governativo, che avverte, tuttavia, le contraddizioni e le ipocrisie del regime fascista, di cui giocoforza ne è un rappresentante in virtù del ruolo che ricopre, ma dal quale ne vuole fortemente
prendere le distanze, come già fatto in passato, quando fu allontanato dalla patria per aver indagato su un caso che avrebbe messo in imbarazzo il governo.
Il Maggiore Milton – questo il cognome prima della forzata “italianizzazione” voluta dal fascismo – si muove su un terreno spesso insidioso e non privo di rischi, pur di assolvere al suo compito: rintracciare l’assassino di un benestante uomo d’affari italiano, senza cadere in semplicistiche interpretazioni che avrebbero assecondato i desideri del regime – chiudere il caso accusando gli indigeni per poter inasprire la repressione e bloccare ogni tentativo di ribellione – allontanandolo così dalla verità.
Amante dei Beatles, fedele monarchico, insofferente ai dettami del fascismo, Miltone – guidato da un grande intuito e dalla sua sensibilità – riflette durante l’intera narrazione sui comportamenti umani, spesso in un curioso e ironico mix italo-inglese – eredità del bisnonno – si espone a rischi concreti, sfidando apertamente il regime in nome dei suoi valori e della salvaguardia della dignità degli oppressi.

Uno dei temi cardine del romanzo, infatti, è proprio la contrapposizione fra italiani e indigeni: i dominatori discriminano, psicologicamente e fisicamente, i nativi somali che, in risposta ai soprusi, fonderanno il Comitato di Liberazione Nazionale per riappropriarsi della loro terra. Scontri armati e violenze sono l’esasperata manifestazione di una convivenza forzata che non può più proseguire.

Durante la narrazione, emergono episodi di una storia realmente vissuta durante il passato coloniale italiano, a partire dalle tristi pagine sul madamato, la discriminazione razziale, il controllo dei mezzi di propaganda, la violazione dei diritti umani e la limitazione della libertà personale, civile e politica.
Il confronto ideologico passa anche attraverso la relazione tra il Maggiore e Ilaria Asciai – colta e raffinata donna di origini somale – che avrà un ruolo determinante nella vicenda, divisa tra l’amore per la sua terra e quello filiale verso il padre italiano.

Sul piano stilistico, colpiscono i numerosi monologhi interiori del protagonista, i dialoghi con lo sciumbasci e l’amico medico Villetti, dai quali filtra anche il pensiero politico del Maggiore: «Vedo gente che fa carriera solo perché indossa la camicia nera, e si arricchisce spudoratamente. La corruzione è dilagante e la magistratura resta inerte».

Un romanzo che ci fa rivedere i fantasmi di un passato che vorremmo occultare – gli orrori di Addis Abeba, la guerra, la retorica dei regimi totalitari – ma che sa parlare anche dell’oggi e ci fa riflettere per il futuro.

Vanessa Sirtori