Per iniziare, facciamo un passo indietro.

Spostiamoci a Tallulah, una minuscola e sconosciuta cittadina del Mississippi a 300 chilometri da New Orleans. In una notte di luglio del 1899. Quella notte avvenne un linciaggio e a farne le spese furono alcuni nostri connazionali, emigrati negli Stati Uniti da Cefalù. La causa scatenante della rabbia collettiva che portò al loro linciaggio fu una capra. Una stupida capra. O meglio, quello fu il pretesto. La ragione vera era annidata nell’odio razziale che aveva come bersaglio prediletto gli italiani che avevano preso il posto dei ‘negri’ nella coltivazione dei campi, riconvertiti dal cotone – ormai poco redditizio – alla canna da zucchero. Perché lo zucchero aveva invaso il pianeta, si usava dappertutto e per qualunque cosa, e c’era bisogno di manovalanza a basso costo. Ai ‘negri’ avevano promesso nuovi diritti e non ci stavano più a farsi prendere in giro come una volta. Servivano nuove schiere di disperati disposti a lavorare per pochi dollari e una manciata di speranza.

Così, d’accordo con il nuovo Regno d’Italia, venne siglato un accordo con alcune società della Lousiana, della Mississippi e dell’Arkansas, che vennero in Italia a promettere un futuro migliore e ad assoldare schiavi. Il Regno d’Italia “sembrava molto voglioso di disfarsi del suo popolo” e accettò di buon grado quella sorta di mediazione. Quella svendita di una parte della popolazione. I nostri connazionali trucidati a Tallulah erano là per un motivo: lavorare. E in sorte toccarono loro la discriminazione e la morte violenta. Sulla base di una svendita organizzata sulla loro pelle.

La vicenda è raccontata in Storia vera e terribile tra Sicilia ed America, scritto da Enrico Deaglio, pubblicato da Sellerio e da cui è preso il virgolettato. E somiglia all’innesco di una vicenda che ha uno dei suoi capitoli successivi nella storia raccontata in Marcinelle 1956, bellissimo romanzo a fumetti di Sergio Salma, pubblicato da Diabolo Edizioni.

Possiamo, dunque, fare un passo avanti e spostarci all’8 agosto del 1956, a Marcinelle, in Belgio. Ancora estate. Ancora lavoratori italiani, in questo caso operai, emigrati nella speranza di costruirsi un futuro migliore. Ancora una volta sulla base di un accordo: quello tra la Federazione Carbonifera Belga e il governo italiano, al quale vennero promesse agevolazioni nell’acquisto del carbone – allora il combustibile più in voga – in cambio della possibilità di proporre agli italiani un lavoro nelle miniere del Belgio. Molti nostri connazionali accettarono, attirati da condizioni salariali e garanzie allettanti, e si trovarono a lavorare in condizione durissime, a centinaia di metri sotto terra, per moltissime ore al giorno. Col corollario di pregiudizi che accompagna quasi sempre nuove comunità di immigrati poveri e numerosi.

La società che gestiva la miniera di carbone del Bois du Cazier, a Marcinelle, era stata fondata nel 1899. Una curiosa coincidenza. Ed è a Marcinelle che si svolge la storia di Pietro Bellofiore e della sua famiglia. Una storia inventata dal belga di origini italiane Sergio Salma, ma che incarna ciò che è accaduto davvero a molti nostri connazionali. E ciò che serve a raccontare ciò che è accaduto l’8 agosto 1956. Il tragico incidente che portò al disastro di Marcinelle, in cui persero la vita 262 delle 275 persone presenti. 136 erano immigrati italiani.

La storia di Pietro Bellofiore inizia a gennaio del 1956. E inizia con Pietro che discute con un collega delle vacanze estive. Pietro vorrebbe tornare a ottobre, ma il collega gli dice che è pazzo. È d’estate che dalle loro parti c’è il sole, loro vivono sempre al buio. Ma per Pietro d’estate c’è troppo caldo, dalle loro parti, cioè al sud. Un sud che potrebbe essere la Sicilia, magari Cefalù. In realtà Pietro ha perso interesse e fiducia nei confronti dell’Italia: si sente abbandonato, svenduto. E la vita in Belgio inizia a piacergli. E forse gli piace ancora di più quando, nel corso di quei mesi, incontra Françoise, una donna che vive lungo la strada che percorre per andare al lavoro. E su quella strada ha una sbandata, che gli attira le ire di suo fratello Salvatore, la preoccupazione di sua moglie Maria e i predicozzi del parroco della comunità. Ma, chissà, quella sbandata potrebbe essere una benedizione.

Marcinelle 1956 ha molti pregi. È disegnato con un tratto netto che ricorda l’animazione di scuola franco-belga, in cui i corpi e i volti sono realistici ma quasi caricaturali. È una storia normale, in cui si respirano la fatica, il disagio, un pizzico di disperazione da luci fioche sopra tavole scarsamente imbandite. Ed è una storia che, nella sua quotidianità, fa deflagrare la tragedia di tutti quegli operai, tanti italiani, morti asfissiati o bruciati vivi dentro una miniera di carbone, per uno stupido errore umano. Ma soprattutto perché le condizioni di lavoro erano insopportabili e insicure.

Così, ogni 8 agosto, torniamo con la memoria al destino di centinaia di nostri connazionali. Morti lontano da casa, a Tallulah come a Marcinelle, svenduti, con una manciata di speranza tramutata in cenere. Se siamo ancora qui a parlarne, però, la loro storia non è morta. Anche grazie a un libro bello come quello di Sergio Salma.

Jacopo Masini