“Be angry. It’s good to be angry”, una specie di mantra.
C’è una bicicletta quella con cui da ragazzina portava messaggi, manifesti e munizioni ai partigiani, una bicicletta sottile e sicuramente arrugginita, pedalava veloce e nervosa al ritmo del rischio e dell’incoscienza, delle precise istruzioni del padre e del desiderio di libertà. Fallaci ha pedalato tutta la vita con quel desiderio. È stata in guerra tutta la vita, e quel riflesso sviluppato laggiù, in un mondo in cui anche i bambini resistevano e lottavano, in cui l’educazione, la cultura e i sentimenti si formavano velocemente, per esposizione alla vita, è stato il suo motore. Una specie di istinto, qualcosa che stava in ogni poro della pelle, una forma di coraggio hanno guidato la sua formazione, sul campo, nel mondo. Raccontava di avere avuto le prime mestruazioni sul monte Giovi, mentre stava con i partigiani. “Mi dissero: non avere paura, è una cosa bellissima, sei una donna”. Una bambina che diventa donna ad ogni bivio, sola, in guerra, tra camerati e nemici, nascondendo la paura, e funzionando attraverso la paura, spudoratamente, questa è stata Oriana tutta la vita. E non importa se la montagna che hai scalato non era quella giusta. E non importa se hai ingoiato la nuvola nera e quella ti ha tinto la lingua e i polmoni di nero.
Attorno c’è una società in cui se volevi un posto tutto tuo bisognava scrivere come gli uomini, vivere come un uomo. Vivere come una donna era quasi un inedito. In cui i colleghi e i direttori dei giornali ti trattavano con paternalismo. Su quella società, su questa misoginia istituzionalizzata lei ha marciato, pedalato controvento, da autodidatta, con addosso l’essenziale, uno zaino con il registratore, la macchina fotografica e i suoi appunti. Con appresso solo quel messaggio che la madre Tosca le aveva lasciato. Lei ha sempre detto e fatto quello che nessuno avrebbe detto o fatto, quello che nessuno si aspettava, perché la verità sta sempre dall’altra parte, è una intuizione non un fatto, quando la sfiori è una premonizione, si attira nemici, si presta ad essere fraintesa. Sta dall’altra parte, come la guerra e bisogna andare a cercarla non farsela imboccare. Controvento, fino a quell’ultima intervista con Ratzinger, lei laica da una vita.
C’è chi la cerca nella povera cassapanca di una famiglia umile, il luogo in cui si conservano le memorie familiari. La cassapanca che è andata distrutta (tutti abbiamo da qualche parte una perdita) e che lei testardamente si è fatta rifare da un falegname, per portarsela a New York, a quell’indirizzo assolutamente privato in cui si ritira negli anni Novanta. Go away! c’è scritto su un post-it attaccato al campanello della palazzina sulla Sessantunesima strada. Fuori, dentro libri d’epoca, antiquariato, le uova di Fabergé, stampe orientali e mappe militari, la scrittura del romanzo familiare (che non finirà, uscirà postumo con il titolo Un cappello pieno di ciliegie) e il cancro. E la cassapanca di Ildebranda, l’antenata dai capelli rossi che cavalca e bestemmia. La cercano nel silenzio del padre, che sotto le torture dei nazifascisti, non parlerà mai. E nella frustrazione della madre, che si sposò troppo presto e annegò nel matrimonio e nella sua schiavitù i suoi sogni. “Mio padre era un eroe di guerra, ma in pace era solo un uomo. Mia madre invece era un essere umano favoloso”. Nello zio Bruno, giornalista, che le ha insegnato il mestiere…
Ma Fallaci resiste a qualsiasi racconto, non sembra mai soddisfatta, perché lei da lì, ovunque sia o non sia, continua a giudicarci, con sarcasmo, con una ironia spietata, con quella sua parlata fiorentina, con quel ora ve lo faccio o ve lo fò vedere io, cicale. “Tu che non sai perché rido così forte quando rido, e piango così fitto quando piango, e mi accontento di così poco quando mi accontento, ed esigo tanto quando esigo”.
Una bambolina con la bocca a cuoricino e gli occhi, bellissimi, che la matita allunga ancora di più, sempre lo stesso gesto, la stessa eleganza. Il più bel culetto dell’azienda, diceva Angelo Rizzoli. Immagini ridicole o meno, ma solo di inchiostro, che non combaciano mai. Stonate. Anche quando provo più decorosamente a dire che era minuta e glamour come Joan Didion, determinata nella malattia (chiamala cancro dice a Mentana prima di tutti gli altri) come Susan Sontag, mi sembrano parole, solo stupide parole. Lei la giornalista più famosa della sua epoca, una giornalista internazionale quando in Italia questa figura non esisteva. Come spiega Cristina De Stefano nella sua 🔗biografia di Fallaci, “ha cominciato molto presto a pensare al suo lavoro in termini globali”. L’Oriana fragile e romantica e passionale, che viene fuori dai ricordi di amanti, come François Pelou, che non sono stati all’altezza. Quella che per le femministe di sinistra aveva l’utero nel cervello. O la “carogna”, cattiva. Kamikaze, incendiaria, pasionaria… icona della destra estrema, vecchia folle, una specie di Bardot transalpina. Per concludere, con la stessa approssimazione, che lei, alla fine, avrebbe sabotato il suo proprio mito, con l’islamofobia di La rabbia e l’orgoglio. Non ho mai creduto che l’abbia fatto. Anzi è stata coerente con se stessa fino alla fine, fino alla fine burlandosi delle etichette, dei dogmi, del politicamente corretto. Altro che un’icona bisognosa di riabilitazione. Non è forse vero che tra l’America e l’Europa, come ci spiegava, non c’è un oceano, ma un sottile filo d’acqua?
A un certo punto tutta questa fragilità e tutta questa energia si cristallizzano attorno ad una grande delusione, che sarà anche l’anticamera di un’altra grande delusione, la relazione con il corrispondente di guerra Francois Pelou. Torniamo indietro, negli anni Sessanta, Oriana Fallaci resta incinta ma perde il bambino. Il resto è storia, è la 🔗Lettera a un bambino mai nato (1975, mentre in Italia si discute la legge sull’aborto e lei pubblica questo libro incandescente scritto dieci anni prima e chiuso nel cassetto, dichiarando provocatoriamente che a lei le discussioni sull’aborto non interessano) e l’aborto (almeno due ricostruisce De Stefano) come non era mai stato raccontato prima. Dopo la stanza d’albergo e i sonniferi e il ricovero in un ospedale psichiatrico, lontano dai media. Dopo quando Oriana riprende in mano la sua vita, tutto sarà diverso. Io l’ho incontrata in quelle pagine. Non nella citazione del decoro, la chiesa, la scalinata, le campane, nel riflesso della giornalista a cui molte giornaliste vorrebbero assomigliare. Nel tormento e nel dolore di una donna di fronte ad un evento, e a quel che resta. Non l’ho trovata nella parafrasi, nel mito, nell’icona, nel desiderio narcisista di identificazione che finisce per essere solo una brutta copia. Solo nel dolore della perdita e nel coraggio di dirlo (la lettera “non è un libro sull’aborto, ma sul dubbio. E sul dolore”, dice Fallaci).
In quella firma unica, nello stile Fallaci, nell’inizio di un nuovo giornalismo politico, nella professionalità, nella dedizione, nella grandissima esperienza, Oriana Fallaci ha sempre cercato l’uomo che sta fuori della retorica, l’uomo che sta sul filo del bene e del male, l’uomo che ha coraggio, perché lei sa benissimo che l’oppressore può trasformarsi in carnefice, ed il carnefice è anche una vittima. Delle guerre ci ha mostrato le donne, i bambini, le esecuzioni dei giovani, il bambino che per salvare il fratello condannato a morte si è gettato sui giustizieri, le tre donne che a Kabul sono state uccise per andare dal parrucchiere, la gente che si ammazzava gettandosi e nuotando nel vuoto quell’11 settembre. “Our failure is one of imagination, of empathy: we have failed to hold this reality in mind”, scriveva Sontag, dopo Sarajevo in Regarding the pain of others (🔗Riguardo al dolore degli altri). Fallaci ce l’ha fatto immaginare.
Lei cerca la purezza. E chi cerca la purezza non può tacere, non può essere politicamente corretto, ci sono idioti, stupidi, incolti, dittatori, traditori, e lei lo deve dire, lei quel chador, quella specie di prigione da cui le donne arabe sono costrette a guardare il mondo, lo deve togliere, deve provocare Khomeynī, glielo deve dire sul muso che è un abito medievale e stupido. Perché altrimenti che senso ha? Altrimenti le battaglie non si combattono. E finiamo così: nel western americano il cow-boy a cavallo stavolta è Donald Trump.
Anche in quell’esplosione di rabbia che è la trilogia di 🔗La rabbia e l’orgoglio, Fallaci sta ancora solo cercando i martiri e gli eroi, quelli veri. Come il suo amato Alekos, Alekos Panagulis, che passò cinque lunghissimi anni sotto le torture senza confessare niente (🔗Un uomo). Quelli che muoiono in piedi. “Sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati, gli impiegati che lavoravano nelle due Torri, i pompieri e i poliziotti, un padre e un figlio, tra di loro, i passeggeri del volo. Nel loro caso ci vorrebbe il paradiso, non quello riservato ai martiri musulmani, il Djianna con le vergini, le schiave e gli orgasmi moltiplicati”. E le donne ovviamente, sempre presenti, quelle lasciate a terra nella Strada del Disprezzo, da Oriente ad Occidente, a cui lei ha sempre dato voce.
Quel noi che guardiamo e ci indigniamo e che chiudiamo pure gli occhi sulle barbarie, le piccole e grandi violenze, noi che subiamo e facciamo le guerre, noi che resistiamo e no, spettatori e attori, noi che sbagliamo in nome di ideali e che crediamo di non sbagliare mai, noi che siamo angeli e bestie. Quel noi di cui parlava Virginia Woolf in Three Guineas (🔗Le tre ghinee). quel noi che in guerra e in pace non può essere dato per scontato quando stiamo guardando al dolore degli altri (no “we” should be taken for granted when the subject is looking at other people’s pain, scriveva Sontag a proposito di quella lettera di Woolf).
Silvia Acierno
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